dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI
REGGIO CALABRIA - Quel minuto di silenzio prima della partita fu un atto di rispetto verso Pasqualino Arena, padre padrone della squadra. Con tre colpi di bazooka avevano ucciso don Carmine, suo cugino. E gli undici giocatori dell'Isola Capo Rizzuto, terza in classifica nel campionato di Promozione del girone A, lo onorarono pure in campo. Quella però non era la prima volta che capitava. Anche allo stadio di Locri avevano già ricordato il loro boss ammazzato. Usa così, quando la 'ndrangheta è nel pallone.
A volte sta in panchina e a volte tira calci, quasi sempre comanda. Come il dirigente del Guardavalle Cosmo Leotta, uno che andava ai summit nei casolari tra Siderno e Monasterace per suggerire chi meritava di far parte della cosca e chi no. L'hanno arrestato dopo cinque mesi di latitanza. È ancora ricercato invece il suo centravanti Paolo Riitano, quello che nel torneo di Eccellenza era famoso per il sinistro che non perdona. Comandava anche il direttore sportivo della Nuova Melito Antonio Toscano, che è scomparso all'improvviso alla vigilia del derby con il Bagaladi. Lupara bianca. E comandava pure Pantaleone "Luni" Mancuso, presidente del Monte Poro e uno dei capi della "famiglia" più potente tra Vibo e Lamezia. C'è odore di mafia nel calcio dilettantistico calabrese, dalla prima categoria fin su alle serie più alte.
Fanno giocare e puliscono soldi sporchi, gestiscono campi e spogliatoi, ogni tanto truccano partite. L'ultima denuncia l'ha fatta in un convegno sul disagio giovanile don Pino Demasi, rappresentante di "Libera" nella piana di Gioia Tauro e parroco di Polistena, paese circondato da ulivi secolari lungo la statale che dal Tirreno porta allo Jonio. Siamo andati a trovarlo nella sua chiesa di Santa Marina. Ci ha raccontato: "Molti presidenti di squadre sono mafiosi o mettono i loro uomini di fiducia a dirigerle, prima o poi tanti ragazzi finiranno così al servizio delle cosche". E ha aggiunto: "Ci conosciamo tutti e sappiamo tutto di tutti nei nostri paesi, io dico solo quello che vedo e che possono vedere anche gli altri. Certo, non bisogna generalizzare ma la realtà è questa". Il sacerdote invita a indagare "su chi realizza impianti sportivi e campi di calcetto", i poliziotti del commissariato locale l'hanno già ascoltato come testimone.
Le accuse di don Pino stanno agitando in questi giorni gli ambienti calcistici da Cosenza fin giù allo Stretto. Per primo gli ha risposto stizzito l'avvocato Carmine Fiorino, che è il presidente della Palmese: "Fuori i nomi, quel prete faccia i nomi e i cognomi senza sparare nel mucchio. Da tanto tempo sono dirigente di una squadra e non ho mai ricevuto una pressione: ho solo incontrato presidenti cordiali e affettuosi". Da Catanzaro ha replicato anche il professore Antonio Cosentino, presidente della Federazione italiana gioco calcio in Calabria: "Nella regione ci sono 536 società e ogni dirigente presenta un'autocertificazione dove dichiara di essere incensurato: che io sappia problemi di 'ndrangheta non ce ne sono mai stati".
Calcio pulito quello calabrese o calcio intossicato dai boss e dai loro reggipanza? Un paio di anni fa la Dia aveva iniziato un'indagine "conoscitiva" sulle infiltrazioni nei campionati dilettantistici, inchiesta partita subito dopo l'arresto per associazione a delinquere ed estorsione di Paolo Fabiano Pagliuso, il presidente del Cosenza quando militava in serie B. Era il marzo del 2003 e Vincenzo Macrì, sostituto della procura nazionale antimafia, dichiarò: "Ci siamo accorti di una particolare attenzione della 'ndrangheta verso il calcio minore. Più che gli affari, i boss cercano il consenso".
Il caso del Cosenza o quell'altro di Giuseppe Sculli - la mezzala del Messina nipote del boss Peppe Morabito "Tiradritto" e sospettato per una combine in un match del 2002 con il Crotone - sono però solo gli episodi più clamorosi dell'intreccio che c'è tra il pallone e i clan.
L'impasto è forte. E qualche volta palese, reso pubblico.
Come nel 1995, quando i muri delle vie centrali di Reggio furono coperti da locandine che annunciavano un evento sportivo, il "Memorial Fortunato Maurizio Audino". Erano più di 800 i ragazzini delle elementari e delle medie che partecipavano al torneo calcistico. Chi era Fortunato Maurizio Audino? Era un imprenditore edile con precedenti per traffico di stupefacenti saltato in aria sulla sua auto al centro della città. Non si scoprì mai se stava trasportando una bomba o se l'avevano fatto fuori azionando un comando a distanza.
Segnarono gol alla sua memoria le scolaresche reggine.
Ma è soprattutto la domenica che in certi campi i "mammasantissima" spadroneggiano. Ci rimase male il giovane arbitro Paolo Zimmaro, studente ventenne alla facoltà di ingegneria di Cosenza, quando il 4 ottobre del 2004 fu sospeso dalla Figc per avere autorizzato un minuto di silenzio prima della partita Strongoli-Isola Capo Rizzuto. Gli avevano detto negli spogliatoi che era morto un ragazzo parente del presidente della squadra ospite. E lui, in buona fede, ci aveva creduto. Il morto invece era Carmine Arena, il venerdì prima stava viaggiando sulla sua Thema blindata quando in cima alla collina un sicario si sistemò sulla spalla il bazooka e tirò tre volte. Fu il dirigente - accompagnatore dell'Isola Capo Rizzuto club a chiedere quei sessanta secondi di "raccoglimento", poi lo Strongoli vinse 1 a 0 e il povero arbitro pagò per tutti.
Sempre a ottobre ma nel '97, fu invece il Locri a commemorare il suo boss. Era uno dei famigerati Cordì, Cosimo. La partita era quella tra il Locri e lo Sciacca nel campionato di Eccellenza. Si giustificò il presidente Giorgio Barresi, chirurgo e allora candidato sindaco: "È stato un doveroso atto di solidarietà nei confronti dei nostri giocatori: basta criminalizzare Locri". Il minuto di silenzio l'avevano osservato per il lutto dei nipoti del capocosca ucciso, il difensore Livraghi e il centrocampista Romeo. Quel pomeriggio i due non erano nemmeno in panchina. Tre anni dopo incendiarono le auto di D'Angelo, Giglio e Caridi, altri tre calciatori del Locri. La magistratura aprì un'inchiesta e scoprì che dietro gli attentati c'era una partita che qualcuno voleva taroccare, quella finita 0 a 0 con il Crotone nel campionato dilettanti del girone I.
Con quel pareggio il Crotone salì in C 2. Molti giocatori del Locri furono contestati dalla tifoseria locale per lo scarso impegno mostrato in campo.
Giocarono bene però quei tre, quelli ai quali poi bruciarono le macchine. Ma non è solo a Locri e non è solo nelle altre capitali di mafia calabresi che i boss allungano le mani sulle squadre. A Melito Porto Salvo fece molto scalpore due anni fa la scomparsa di quell'Antonio Toscano. Per qualche tempo era stato ricercato come affiliato alla "famiglia" Iamonte, poi aveva in parte risolto le sue disavventure giudiziarie e seguiva da direttore sportivo le sorti della società calcistica. Una mattina trovarono in una strada di Reggio la sua Audi con le portiere aperte e le chiavi infilate nel cruscotto: l'avevano sequestrato. Il suo cadavere non è mai stato trovato. E non trovarono per mesi neanche quel dirigente del Guardavalle, Cosmo Leotta.
Poi però - lo scorso a febbraio - fu arrestato. Nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice Antonio Baudi era accusato "di condividere il progetto criminale" dei Galati di Siderno, di "svolgere funzioni di raccordo logistico", di "partecipare a riunioni per fornire pareri sull'affiliazione di nuovi adepti".
E quando in campo le cose non vanno come devono andare, quelli minacciano. L'ultimo avvertimento l'hanno spedito due settimane fa da Vibo Valentia. Cinque buste indirizzate a cinque dirigenti del Catanzaro calcio. In ogni busta c'era una pallottola.