Dossier 'Ndrangheta Dicembre 2004

Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, è stato assassinato domenica 16 ottobre mentre si trovava davanti al seggio elettorale della sua città, Locri, per votare alle elezioni primarie dell'Unione. Esponente di primo piano della Margherita calabrese, 54 anni, Francesco Fortugno lascia la moglie e due figli.
Si tratta del più grave attentato mafioso perpetrato in Italia da molti anni a questa parte. Dalle stragi del 1992 le mafie non colpivano importanti esponenti delle istituzioni. Per quanto riguarda la Calabria, per trovare l'ultimo omicidio politico bisogna risalire al 1989, quando fu assassinato Ludovico Ligato, ex parlamentare Dc ed ex presidente delle Ferrovie dello Stato.
Questo delitto suscita inquietanti interrogativi sul cambiamento di strategia mafiosa in atto e sul prezzo che il Paese paga per la sottavalutazione della questione calabrese.
Già lo scorso dicembre Narcomafie denunciava il clima di crescente intimidazione nei confronti di politici ed amministratori locali della Calabria. Pubblichiamo di seguito il dossier del numero di dicembre 2004 di Narcomafie dedicato alla 'Ndrangheta, che rimane, purtroppo, di scottante attualità.

-------------------------------------------------------

Amministratori nel mirino
Marco Nebiolo

Proiettili, incendi, bombe. Negli ultimi mesi in Calabria attentati e intimidazioni ai danni di politici, amministratori e imprenditori sono aumentati. E alcuni hanno deciso di gettare la spugna

C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine il Governo ha dovuto prendere atto della drammaticità della situazione calabrese. Il 23 ottobre il ministro dell’Interno si è recato a Reggio Calabria per partecipare alla seduta straordinaria del Consiglio regionale e dare una risposta alle invocazioni di aiuto che in questi mesi si sono levate sempre più insistenti da parte di imprenditori, amministratori locali, politici regionali, semplici cittadini. In quell’occasione Pisanu ha illustrato il Piano straordinario per la sicurezza predisposto dall’esecutivo per porre un argine all’“emergenza-Calabria”. Perché in questo pezzo d’Italia sono messi in discussione quotidianamente i principi della democrazia e della convivenza civile: il diritto di scegliere i propri rappresentanti politici, il dovere di amministrare nell’interesse comune e nel rispetto delle leggi, il diritto di fare libera impresa. Perché in questa regione, povera di servizi, di infrastrutture, di industria è cresciuta la più potente e invasiva organizzazione criminale italiana, la più ricca e internazionalizzata, la meno colpita dalle forze dell’ordine. Un’organizzazione che fa sentire ogni giorno il peso della sua presenza violenta.
Nella busta
i proiettili
La bomba (mediatica) è esplosa alla fine di agosto, con le clamorose dimissioni di Rocco Cassone, sindaco di Villa San Giovanni. Questa piccola cittadina in punta allo stivale è al centro di interessi rilevantissimi, legati alla costruzione della “grande opera” per antonomasia – il Ponte sullo Stretto – e agli appalti milionari per i cosidetti lavori preparatori: variante ferroviaria, riallocazione degli invasi dei traghetti pubblici e privati, nuovo porto turistico. Tutto ciò significa denaro in movimento, appalti da spartire. I finanzimenti promessi per rivoluzionare questo piccolo tratto di costa sono molti. La ’Ndrangheta si è mossa con largo anticipo: compravendita di terreni, soprattutto, per preparare future speculazioni.
La decisione fu presa da Cassone dopo aver ricevuto cinque proiettili recapitati in una busta attraverso il normale circuito postale. Cinque proiettili, uno per ogni componente della sua famiglia. E si trattava solo dell’ultimo episodio di una serie che aveva interessato lo stesso sindaco, alcuni assessori, il presidente del consiglio comunale. Il messaggio lanciato dal sindaco era chiaro: la ’Ndrangheta rifiuta questa amministrazione liberamente eletta, il voto dei cittadini non vale nulla. A comandare sono le famiglie della malavita. Il gesto delle dimissioni – rientrate qualche settimana dopo, in seguito alle trasversali manifestazioni di solidarietà e agli inviti a non mollare lanciati da vari esponenti politici nazionali – ha suscitato grande scalpore, ha squarciato un velo di silenzio che avvolgeva e nascondeva la progressiva degenerazione del clima politico e sociale in Calabria.
Villa San Giovanni infatti non è un’eccezione, ma un anello importante di una lunga catena. Un episodio che si inserisce in una strategia ben definita, finalizzata a imporre una ristrutturazione armata delle amministrazioni non allineate, non compiacenti. L’anomalia del caso Cassone sta solo nel clamore suscitato, mentre la strategia di una distribuzione pulviscolare delle intimidazioni – quotidiane ma quasi sempre non sanguinose – doveva tenere lontano l’attenzione dei media.
Ai primi di ottobre una soffiata del Sismi consente alle forze dell’ordine di sventare un attentato ai danni del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti. Nascosti nei bagni del comune vengono trovati tre panetti di esplosivo, per un totale di mezzo chilo di tritolo. Poteva essere una strage. Un salto di qualità notevole: non una semplice minaccia, ma un tentativo vero e proprio. Se fosse esploso l’ordigno, adesso tutti parlerebbero di una nuova strategia, di terrorismo mafioso, di ritorno agli omicidi eccellenti. Scopelliti vive sotto scorta 24 ore su 24. Il fatto che solo pochi giorni fa, il 26 novembre, i carabinieri del Ros di Reggio Calabria, in collaborazione con il Sismi, abbiano sequestrato più di 70 kg di tritolo aumenta il timore che si concretizzino scenari funesti.
La tenaglia
di Serra San Bruno
Altrettanto grave la situazione in provincia di Vibo Valentia. Questo territorio è sottoposto al controllo di alcune famiglie criminali molto forti a livello di relazioni internazionali. Ci sono poi bande minori che sgomitano per conquistare un loro spazio. A luglio l’assessore ai lavori pubblici di Serra San Bruno, Giuseppe Raffaele, scampa per miracolo ad un agguato. Gli attentatori non volevano intimidire, volevano uccidere. Il lieto fine ha tolto visibilità in fretta anche a un episodio particolarmente inquietante perché il tessuto sociale di Serra San Bruno non aveva avuto fino a quel momento nulla da spartire con la storia della ’Ndrangheta, anche se nei suoi dintorni – nel decennio scorso – si è consumata la cosiddetta “faida dei boschi” con la sua scia di morti e feriti. Fatti che però non intaccarono le radici profonde di quella comunità. Dopo l’attentato, il sindaco Bruno Censore ha dichiarato: «Non abbiamo negato diritti a nessuno, anzi abbiamo lavorato per garantirli a tutti. Abbiamo fissato alcune regole certe, vincoli generali per tutti a difesa della collettività». Un’amministrazione in prima linea nella difesa della legalità, quindi, che in quanto tale viene presa a colpi di fucile. Secondo Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di criminalità calabrese, «c’è una tenaglia che stringe questa comunità. Da una parte c’è la blasonata ’Ndrangheta del vibonese, che ha il suo epicentro nella famiglia Mancuso e nei suoi molteplici collegamenti con le cosche tirreniche della provincia di Reggio Calabria; dall’altra ci sono le famiglie di Nardodipace legate alle famiglie della ionica reggina. La famiglia Mancuso potrebbe essere in difficoltà, colpita da recenti operazioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Analoghe difficoltà attraversano le cosche del reggino, anch’esse nel pieno di un processo di assestamento e riorganizzazione». Da questa situazione in ebollizione è probabilmente scaturita la fiammata della missione omicida ai danni dell’assessore di Serra San Bruno.
Nel mese di ottobre altri comuni del vibonese sono finiti sotto tiro. Il sindaco del comune di Gerocarne, Raffaele Schiavello, ha presentato le proprie irrevocabili dimissioni con una lettera inviata al prefetto Mario Tafaro e al Consiglio comunale. All’origine di questa grave decisione, un attentato incendiario contro l’auto della moglie. Non si tratta del primo atto intimidatorio contro l’amministrazione, ma probabilmente vedere il coinvolgimento diretto di un proprio famigliare ha indotto il sindaco a gettare la spugna. E lo si può comprendere: il suo è un piccolo comune, non si costruiranno grandi opere da quelle parti, la politica regionale e nazionale non si è mobilitata per sostenerlo. «Lascio per ritrovare tranquillità per me e per la mia famiglia», ha dichiarato. «Pensavo che potesse cambiare qualcosa in questi ultimi tempi, ma non è andata così».
A poche ore di distanza da queste dichiarazioni è stato colpito il comune di Acquaro, a pochi chilometri da Gerocarne. Ignoti hanno dato fuoco al portone del palazzo municipale. Un’altro avvertimento alle istituzioni. E l’elenco potrebbe continuare: nei primi sei mesi del 2004 sono stati 53 gli amministratori locali finiti nel mirino della criminalità.

Le lacrime dell’imprenditore
La solitudine dei piccoli amministratori è un aspetto molto preoccupante della situazione calabrese. E fare normale amministrazione, in certe piccole realtà, richiede un assurdo surplus di eroismo che non dovrebbe essere richiesto in un tessuto democratico “normale”. Il sindaco di centrodestra di Cetraro Ciro Visca – un piccolo comune della costa tirrenica cosentina – ha annunciato a inizio ottobre di volersi dimettere in seguito all’assenza ingiustificabile dei rappresentanti dello Stato e della Casa delle libertà a una manifestazione contro la ’Ndrangheta. «Sono molto amareggiato e deluso: mentre il centrosinistra ha aderito, i politici di centrodestra sono mancati alla manifestazione».
Ma non sono solo gli amministratori locali ad essere oggetto di intimidazioni. Imprenditori e piccoli commercianti vivono la stessa situazione. Loro devono pagare, punto e basta. Perché in Calabria – dopo il Piemonte la seconda regione italiana per pressione fiscale – c’è un’altra tassa fissa: il pizzo. E su questa non ci sono bonus né sconti, l’elusione non è possibile, non ci saranno abbassamenti delle aliquote. Il 23 ottobre, il giorno di Pisanu al consiglio regionale, la tensione ha toccato l’apice quando ha preso la parola il presidente degli industriali calabresi Filippo Callipo. Proprietario della Tonno Callipo, presidente della squadra di pallavolo femminile promossa quest’anno in serie A/1, si è sempre distinto per la forza con cui ha difeso le ragioni degli imprenditori e denunciato le difficoltà strutturali del sistema-Calabria. Ma in quell’occasione Callipo ha abbandonato i toni istituzionali, il protocollo, e quando si è trovato di fronte l’unico interlocutore capace di dare risposte concrete, il ministro dell’Interno, l’emotività ha avuto il sopravvento. Non è un ragazzino sprovveduto, Callipo, né un ingenuo. Eppure, di fronte al Ministro, si è lasciato andare e, con gli occhi lucidi e la voce rotta, ha detto: «Mi dica lei cosa dobbiamo fare». Un tono insolito, per una persona così combattiva, che denuncia tutto lo sconforto di chi cerca di fare attività imprenditoriale in terre dove la legge non è uguale per tutti e le istituzioni non garantiscono la sicurezza. «Mio figlio, partendo per l’università, mi ha chiesto: sei proprio sicuro di fare l’albergo a Pizzo e la fabbrica di gelati a Maierato? Gli ho risposto con un sorriso, ma mio figlio capisce le mie perplessità inespresse. La prego signor Ministro, se ritiene mi aiuti, mi suggerisca una risposta concreta che sicuramente servirà anche per altri imprenditori».
Poche settimane prima i dipendenti della Tonno Callipo di Maierato avevano scoperto che nottetempo ignoti avevano sparato 5 colpi di pistola contro la porta di ingresso dello stabilimento. Callipo aveva denunciato l’episodio ai carabinieri: «Se chi ha sparato lo ha fatto per farmi tacere ha sbagliato completamente i suoi conti. Quanto è accaduto non basta. La prossima volta i colpi dovranno dirigerli verso di me». È un combattivo, Callipo, e probabilmente il suo ruolo gli impone fermezza. «Fino a quando sarò il presidente di Confindustria Calabria continuerò a parlare nell’interesse degli imprenditori calabresi e di tutti i miei corregionali, denunciando i mali e le arretratezze economiche che affliggono la Calabria».
Ma per pochi che hanno la forza di ribellarsi e denunciare, c’è una maggioranza piegata da una forza intimidatoria strabordante, che per tutelare la propria incolumità sceglie di abbassare la testa. La morsa della malavita sull’economia è sempre più stretta. «Nelle vie principali di Reggio, Vibo Valentia, Cosenza – ci dice Ciconte – resistono ancora le insegne di vecchi esercizi commerciali. Ma dietro le vecchie insegne, spesso si nascondono nuovi proprietari che hanno rilevato l’attività con la violenza, con l’usura e le estorsioni. A volte i nuovi padroni lasciano la proprietà nominale agli antichi proprietari per rimanere nell’ombra». E così cambia l’economia e il modo di fare impresa in certe zone nevralgiche della regione.

Mafiosità in espansione
«Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno», ha detto Pisanu citando don Sturzo. Facile a dirsi, in una regione con 200mila disoccupati, con il Pil più basso d’Italia, con 17 comuni sciolti per mafia dal 91 a oggi, più 250 atti intimidatori contro amministratori e imprenditori dal giugno 2001.
Non bisogna cadere però nella tentazione di sposare letture della realtà semplificatrici e assolutorie. Le organizzazioni criminali che perdurano nei decenni nonostante i cambi di regime, l’ammodernamento degli strumenti di contrasto legislativi e investigativi, poggiano le loro solide radici sul terreno fertile dell’ambiguità delle istituzioni, sulla trasversalità di interessi sporchi, sulla maggiore permeabilità alla criminalità delle società economicamente depresse. Così non è detto che tutti gli amministratori colpiti paghino la loro intransigenza verso l’illegalità e la lotta per un’amministrazione trasparente. In certi casi si colpisce anche chi non rispetta patti scellerati precedentemente intercorsi, che magari sono stati determinanti nel definire il responso delle urne per questo o quel candidato. Così alcuni non denunciano neppure le intimidazioni subite, altri denunciano e poi non collaborano alle indagini.
Alcuni episodi, invece, probabilmente non sono neppure ricollegabili direttamente alla ’Ndrangheta. È di nuovo Ciconte a mettere in luce questo aspetto: «Da parte di singoli cittadini è invalsa l’abitudine di pretendere quello che vogliono dagli amministratori. Pensano di poterlo ottenere con ogni mezzo, compreso l’uso della forza. Non sono appartenenti alle cosche, ma singoli cittadini che decidono di passare alle vie di fatto per ottenere qualcosa o vendicarsi di qualcos’altro, con metodi esplicitamente mafiosi». Insomma, non è la ’Ndrangheta che colpisce direttamente, ma la sua cultura diventa un modello adottato anche da chi è esterno alle cosche: violenza e prevaricazione non sono considerati disvalori, mentre la strada della legalità è sentita come un binario morto. Il dilagare di questa cultura è elemento di grande allarme in una Regione in cui la cultura dell’antimafia è più debole che in altre e in cui l’omertà è profonda e diffusa. In questa situazione le forze dell’ordine, da sole, non possono vincere la lotta alla ’Ndrangheta. Nonostante l’alto numero di affiliati (alcuni investigatori parlano di 5mila ’ndranghetisti solo a Reggio Calabria) e i tanti arresti – alcuni esponenti di vertice, come Morabito e De Stefano –, la mafia calabrese fornisce il minor numero di pentiti, specie di livello apicale, sottraendo agli investigatori uno dei più importanti strumenti di indagine. La verità è che lo Stato viene visto da molti calabresi come un’entità lontana, ininfluente. Il problema è che, in molti casi, è proprio così.

-----------------------------------------------------

I signori del subappalto
Enzo Ciconte

Da decenni la storia si ripete: i grandi appalti vengono vinti da imprese insospettabili, ma i subappalti finiscono tutti in mano mafiosa. Risultato? Guadagni enormi per le cosche e opere più costose e di qualità scadente

Da quarant’anni a questa parte la storia della costruzione di tutte le grandi opere in Calabria conferma come la ’Ndrangheta, in un modo o in un altro, sia riuscita ad inserirsi in tutti i subappalti. Una delle ultime volte è successo poco tempo fa nel tratto cosentino dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, come ha dimostrato la Dda di Cosenza con l’operazione denominata “Tamburo”. È interessante ripercorrere i fatti salienti di questa storia.

Il prezzo della tranquillità
A metà degli anni Sessanta, quando finalmente si avvia il completamento dell’Autostrada del sole nel troncone che congiunge Salerno a Reggio Calabria, gli appalti vengono vinti dai grandi imprenditori del Nord, che avevano i mezzi economici e gli strumenti tecnici per effettuare l’opera. I subappalti, invece, finiscono tutti in mano mafiosa.
La cosa ancora più singolare è il fatto che ad affidare i subappalti ai mafiosi furono gli stessi imprenditori settentrionali. Il primo rapporto tra ’Ndrangheta e imprese è mediato da notabili e politici locali. In quel periodo la ’Ndrangheta fece un balzo in avanti e pose le basi per diventare la potente organizzazione di oggi. Su «La Stampa» di Torino, nel 1970 un giornalista scriveva che «in un certo senso questo nuovo tipo di mafia lo hanno generato i grandi impresari del settentrione». I vantaggi per le cosche furono evidenti: oltre ai subappalti, vennero assunti mafiosi o parenti di mafiosi e di confinati per garantire la sicurezza dei cantieri. Ma il vantaggio non fu solo economico, ce ne fu un altro forse più importante: la crescita del prestigio dell’impresa mafiosa per essere riuscita a far scendere a patti il grande imprenditore del Nord e qualche uomo politico.
Le imprese ottennero notevoli vantaggi, a cominciare dalla tranquillità sui cantieri: non c’erano scioperi, non c’erano né attentati né furti, ma un’assoluta pace sociale garantita dai mafiosi. Il costo pagato alla ’Ndrangheta da parte delle imprese ricadde tutto sui cittadini, perché le imprese richiesero, ed ottennero, la revisione prezzi e le varianti in corso d’opera dei lavori appaltati. Quello che doveva costare 100 finì per costare 120, con la complicità del potere politico e governativo dell’epoca.
Il meccanismo che aveva funzionato così bene durante i lavori dell’Autostrada del sole fu ripetuto negli anni Settanta. Dopo i moti di Reggio Calabria fu deciso di costruire a Gioia Tauro il quinto centro siderurgico italiano. Poco importava che a livello mondiale la siderurgia fosse in crisi. In questa occasione i mafiosi si improvvisarono imprenditori edili e iniziarono a comprare betoniere, ruspe, pale meccaniche, autocarri, camion per poter partecipare ai lavori. Chi aveva i soldi investì in questa direzione. Chi i soldi non li aveva se li procurò con i sequestri di persona al Nord.

Il metodo della concertazione
Iniziati i lavori i managers della Cogitau, il consorzio che appaltava i lavori a Gioia Tauro, andavano in giro accompagnati dal rampollo della famiglia Piromalli, quello stesso rampollo che fece gli onori di casa quando si mise la prima pietra per far partire il quinto centro siderurgico. All’inaugurazione presenziò, a nome del governo, il ministro del bilancio Giulio Andreotti. I Piromalli, che avevano mostrato di avere relazioni con il mondo imprenditoriale e politico, fecero una grande operazione di politica mafiosa: misero attorno ad un tavolo tutte le organizzazioni che contavano della ’Ndrangheta dell’epoca, da Reggio Calabria fino a Gioia Tauro. Fecero una specie di consorzio e si spartirono i lavori. È stato calcolato che i prezzi lievitarono del 15%. E, ancora una volta, chi doveva controllare non controllò.
Naufragata la costruzione del siderurgico, nacque un’altra “brillante” idea, condannata anch’essa a un sicuro fallimento, quella di costruire una centrale a carbone dell’Enel in una realtà che è sempre stata strategica per lo sviluppo turistico della regione: una vasta area che comprende oltre Gioia Tauro anche Tropea e Capo Vaticano, cioè due delle più belle località della Calabria. Una scelta sicuramente infelice. Ma prima del tramonto della centrale si provocarono altri guasti. Come sempre si avviarono i lavori, si spesero migliaia e migliaia di miliardi di lire, e ancora una volta una quota di questi andò alla ’Ndrangheta. Continuò il metodo della concertazione tra le imprese mafiose, e ciò ridusse i conflitti armati tra le famiglie. Durante i lavori per la centrale Enel la ’Ndrangheta si inventò le “associazioni temporanee di impresa” per riuscire a partecipare ai lavori. Questo meccanismo si rivelò un vero e proprio cavallo di Troia perché consentì alle imprese vincitrici degli appalti di allargarsi e di associarsi con quelle che non erano risultate aggiudicatarie.

Il ciclo del cemento
Può essere utile avere a mente questi fatti per comprendere meglio la situazione di oggi e le cose da fare. Soprattutto in relazione al progetto di costruzione del ponte sullo Stretto.
L’intervento delle due organizzazioni mafiose – ’Ndrangheta in Calabria e Cosa Nostra in Sicilia – nella fase di realizzazione dei lavori si può dare per certo? La storia che abbiamo alle spalle spinge a dare, purtroppo, una risposta positiva. Della Calabria abbiamo appena detto. E in Sicilia le cose sono andate in modo analogo. L’esistenza del cosiddetto metodo “del tavolino”, gestito con rara sapienza per conto di Cosa Nostra da Angelo Siino, che attraverso legami ben consolidati con politici e funzionari pubblici garantiva una perfetta e ben oliata “turnazione” nell’aggiudicazione degli appalti da parte di imprenditori collusi, conferma la permanente capacità di Cosa Nostra di inserirsi negli appalti pubblici, piccoli o grandi che fossero. In zone come la Calabria e la Sicilia che sono storicamente zone ad alta densità mafiosa, le attività essenziali per la vita e la gestione quotidiana dei cantieri di costruzione – il movimento terra, i trasporti, la fornitura di materiali inerti e calcestruzzi – sono nelle mani effettive di imprese mafiose o controllate dalla mafia che sono state acquisite con il taglieggiamento o con l’usura. I gruppi mafiosi non sono certo in grado di penetrare nella progettazione o negli interventi di alta ingegneria gestionale, ma sono sicuramente capaci di intervenire in tutte le fasi successive.
Come dimostra la storia di questi decenni, essi hanno avuto la capacità di formare una serie di società in grado di acquistare e gestire autocarri per movimentare via gomma, soprattutto in ambito locale, i materiali utili alla costruzione di un’opera, grande o piccola che fosse. Nello stesso tempo sono stati capaci di assicurarsi una penetrazione nelle ditte fornitrici di materiali impiegati nei cantieri, a cominciare dalla materia prima, ossia il cemento. È oramai assodata l’esistenza di un vero e proprio “ciclo del cemento”, che in ogni suo passaggio offre enormi opportunità alle organizzazioni criminali, a partire dal controllo delle cave e degli alvei dei fiumi per l’estrazione della sabbia e degli inerti.

La pace sullo stretto
La verità è che in questi anni imprese, ditte, pezzi interi dell’economia di queste due regioni sono finiti nelle mani dei mafiosi e questi ora sono in attesa dell’arrivo dei lavori perché sanno che chiunque vincerà gli appalti dovrà fare i conti con loro: tutti, infatti, avranno bisogno di materiale inerte, di camion per trasportarlo, di forniture di ferro, carpenteria metallica, tavole di legno ecc. Inoltre, occorre tenere conto delle novità intervenute nelle dinamiche interne delle singole organizzazioni. Quando nel 1984 il governo sembrava intenzionato ad avviare i lavori per il Ponte, scoppiò una guerra tra le famiglie legate ai De Stefano e quelle legate agli Imerti per il controllo dei terreni sui quali avrebbe dovuto essere costruita la campata calabrese. In Sicilia era in pieno vigore il regno di Riina con la scia dei morti che si è lasciata dietro fino alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Oggi sulle due sponde dello stretto vige un’assoluta pax mafiosa. Se i lavori si faranno nell’immediato futuro saranno realizzati nel massimo della collaborazione intermafiosa, anche perché non è mai accaduto che ’Ndrangheta e Cosa Nostra si facessero la guerra tra di loro; né accadrà adesso, perché non c’è motivo alcuno per farla.
Il problema da affrontare, quindi, non è solo un problema militare o giudiziario. È un problema di prevenzione e di controllo del territorio. Intendiamoci bene: controllo del territorio non significa solo più carabinieri e più poliziotti, anche se un adeguamento degli organici, compreso quello dei magistrati, non guasterebbe. Significa soprattutto controllo del territorio economico, cioè dei passaggi di proprietà dei terreni e delle imprese, un monitoraggio delle operazioni. Significa una radicale bonifica che porti all’espropriazione dei beni in mano ai mafiosi. Se non si colpisce l’economia mafiosa non si intacca il potere, il prestigio, la forza degli uomini delle cosche. E allora, se non si affronta di petto questa situazione, il Ponte, nonostante quello che ne dicono i suoi laudatori, non sarà un’occasione di sviluppo per il Sud, ma l’ennesima occasione per ingrassare ’Ndrangheta e Cosa Nostra.

----------------------------------------------------------

“Potenzialmente eversiva...”
Intervista a Vincenzo Macrì di Marco Nebiolo

Non è facile individuare un uomo simbolo della lotta alla ’Ndrangheta. È come se la Calabria fosse perennemente in un cono d’ombra: in questa regione si combatte la prima linea di una guerra dura e sanguinosa, ma dal fronte giungono ben poche notizie. Chi sono i grandi ricercati? Chi sono i grandi pentiti? È difficile che i non addetti ai lavori sappiano rispondere. Lo stesso vale, specularmente, per i protagonisti dell’antimafia, i cui volti sono sconosciuti ai più: raramente raggiungono gli onori delle cronache, sporadicamenente le trasmissioni televisive si occupano delle loro vicende, dei loro problemi, delle loro vittorie. Eppure, nel silenzio, in pochi e con pochi mezzi, contrastano la prima organizzazione criminale italiana. In questo sono decisamente più sfortunati degli omologhi siciliani o – specie negli ultimi mesi – campani: e non perché la popolarità sia un valore in sé, ma perché l’attenzione dei media molte volte è la premessa per un intervento della politica, troppo spesso sorda ai richiami effettuati attraverso normali canali istituzionali.
Uno dei magistrati italiani più esposti nella lotta alla ’Ndrangheta è certamente Vincenzo Macrì. Calabrese, in magistratura da più di 30 anni, molti dei quali trascorsi nella procura di Reggio Calabria, dal ’93 è sostituto procuratore nazionale antimafia. Ha accettato di buon grado di concederci quest’intervista a tutto campo sulla mafia calabrese. L’unico vincolo che ci ha posto, per evidenti ragioni di opportunità, rigurda l’inchiesta della Dda di Catanzaro sulla cupola politico-mafiosa che avrebbe cercato di delegittimare alcuni magistrati della procura di Reggio Calabria, e che lo vede coinvolto come parte lesa.

Dott. Macrì, quando si parla di mafia solitamente si fa riferimento a Cosa Nostra, l’organizzazione ritenuta più potente e pervasiva in Italia. In realtà le cose non stanno così. Perché nel sentire comune c’è questa percezione?

Non vi è dubbio che all’interno delle mafie di origine italiana, Cosa Nostra sia l’organizzazione più nota, nella quale si è per lungo tempo identificato il concetto stesso di mafia. Ci sono diverse ragioni per spiegarlo. C’è la storia, innanzitutto, perché già alla fine dell’Ottocento la mafia siciliana era sotto lo sguardo della giovane nazione italiana e proprio in quel periodo si svolge la prima visita di una Commissione parlamentare in Sicilia con il compito di analizzare e indagare il fenomeno mafioso. Vi è poi il peso enorme che la Sicilia ha sempre avuto sotto il profilo storico, politico, economico. Di contro, irrisorio è sempre stato il ruolo ed il peso della Calabria, regione che non ha mai influito nella storia, nella politica, nell’economia né ai tempi del Regno delle due Sicilie, né in quelli dello Stato unitario. La Sicilia ha sempre avuto grandi uomini politici, presidenti del Consiglio, ministri, la Calabria piccole figure di rilievo solo regionale, tranne poche eccezioni.
La mafia siciliana è apparsa da oltre un secolo nella letteratura, nel teatro, poi nel cinema, infine negli sceneggiati televisivi, è stata studiata da sociologi, antropologi, storici di rilevo (Pitrè, Pantaloni, oltre a vari autori stranieri), mentre la ’Ndrangheta solo da qualche decennio ha ricevuto l’attenzione di saggi storici di un qualche rilevo. E ancora, la mafia degli Stati Uniti è stata sempre considerata come diretta filiazione di quella siciliana, mentre la componente proveniente dalla Calabria o da altre regioni è stata praticamente ignorata.
Quando poi, negli ultimi 30 anni, ha acquisito potere e spazio “politico”, è stata la stessa ’Ndrangheta a scegliere un basso profilo, una politica di “dialogo” con le istituzioni e non di scontro frontale con esse, consapevole che una maggiore visibilità non le avrebbe dato alcun vantaggio, anzi la avrebbe ostacolata nella scalata che stava lentamente conducendo ai vertici del traffico internazionale di droga.

Forse hanno influito anche le differenze organizzative: Cosa Nostra ha storicamente una struttura piramidale e una coesione assenti nella ’Ndrangheta. Ma questo discorso vale anche per la ’Ndrangheta di oggi?

È un aspetto che non si può esaurire nello spazio di un’intervista. Fino a circa dieci anni fa mancava una vera e propria gerarchia, del tipo di quella esistente in Sicilia. Nessuna cupola insomma, ma tanti “locali” (la struttura organizzativa di base della ’Ndrangheta, nda.) ciascuno dei quali competente su un determinato territorio, affiancati dalle cosche (strutture riferibili a singole famiglie), che trovavano il loro momento di coordinamento in organi come il “locale” madre, quello di San Luca, territorio nel quale non a caso si svolgevano (precisamente nei pressi del santuario della Madonna di Polsi) le riunioni annuali dei responsabili dei “locali” sparsi in Italia e nel mondo.
Un’organizzazione del genere si è rivelata efficiente e duratura, ma non ha saputo prevenire guerre sanguinose che si sono verificate negli anni 70 e 80; così, nel 1991, al termine della seconda guerra di mafia, è stata avvertita la necessità di istituire un organismo sovraordinato (la Commissione provinciale o “provincia”) rappresentativo dei tre mandamenti (la montagna, ovvero la Locride, la Piana, ovvero la fascia tirrenica, la città, ovvero Reggio Calabria), corrispondenti ai territori dei circondari dei Tribunali di Locri, Palmi e Reggio, nei quali è suddivisa la provincia di Reggio Calabria. Di questo organismo è probabile fosse componente di vertice anche un personaggio come Giuseppe Morabito, stando almeno ad alcune emergenze investigative e giudiziarie.

Cosa Nostra ha avuto un rapporto più organico con la politica...

Anche la ’Ndrangheta ha un rapporto con la politica. Vi sono decine di processi, alcuni ancora in corso, che ne offrono testimonianza e riscontro. Cito per tutti i processi Romeo, Matacena, Mancini, prescindendo beninteso dall’esito degli stessi, ma nei quali si rinvengono decine di dichiarazioni di collaboratori che riferiscono circa i rapporti tra politica e mafia calabrese. Ho sempre pensato che uno dei motivi per cui questa organizzazione appare invincibile è proprio la perdurante contiguità con il potere politico, con le istituzioni, compresa quella giudiziaria, con la massoneria, con la grande finanza. Una ’Ndrangheta priva di rapporti con la politica sarebbe cosa assai diversa da quella che è attualmente.

Ma quali sono i rapporti tra mafia siciliana e calabrese?

Sono rapporti tradizionali. Ne abbiamo prove e riscontri di ogni tipo. È un rapporto ancora in vita che si rinnova in relazione a traffici di droga, partecipazione ad appalti, strategie complessive ecc. Ricordo che il calabrese Domenico Tripodo fu compare d’anello di Totò Riina, che sia questi che Santapaola trascorsero parte della loro latitanza in Calabria, che esponenti della ’Ndrangheta erano componenti della Commissione regionale in Sicilia. La recente operazione “Igres” ha offerto ulteriore conferma di tale collaborazione nel traffico di cocaina dal Sud America all’Europa, ma di esempi se ne potrebbero fare a decine. In questo momento l’attenzione degli investigatori è rivolta a possibili alleanze in vista dei lavori per la costruzione del Ponte sullo Stretto.
È vero che la ’Ndrangheta è l’organizzazione più violenta, di una spietatezza quasi primitiva? All’interno di Cosa Nostra i Corleonesi sono considerati da alcuni un elemento di rottura con la tradizione…
Le mafie sono per definizione organizzazioni spietate perché fondano il loro potere sull’uso della violenza omicida. Dunque non saprei stabilire una gerarchia di spietatezza. La triste fama della ’Ndrangheta è dovuta, penso, alla pratica dei sequestri di persona, anche nei confronti di vecchi, donne, bambini, accompagnata in alcuni casi da sevizie e crudeltà, come il taglio delle orecchie da inviare alla famiglia del sequestrato o l’uccisione degli stessi ostaggi dopo aver ottenuto il riscatto. Altro elemento caratterizzante sono le numerose “faide” a carattere familiare, all’interno di piccoli paesi (Seminara, Ciminà, S. Martino di Taurianova ecc.), che hanno lasciato sul terreno centinaia di morti spesso per motivi futili, che però hanno costituito l’occasione per scatenare conflitti per il dominio del territorio e per l’affermazione del proprio prestigio mafioso.

È possibile calcolare anche in modo approssimativo il numero degli affiliati? C’è chi parla di 5mila ’ndranghetisti solo a Reggio Calabria...

Il numero complessivo degli affiliati è assai elevato e sicuramente molto superiore a quello di 5mila che continua ad essere diffuso nonostante sia palesemente errato. Una stima più attendibile è quella di alcune decine di migliaia e il numero di 5mila riferito alla sola città di Reggio non è lontano dalla realtà.
I “locali” sono tantissimi: in Calabria ve n’è uno per ogni paese, villaggio, e nelle città, in ogni rione o frazione. Se si pensa che vi sono “locali” in Puglia, Basilicata, Lazio, Toscana, Emilia, Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, e ancora in quasi tutti i Paesi europei, e poi in tutti i continenti abitati, si vedrà che si arriva all’ordine di migliaia.

Quante sono le cosche e quali sono le più potenti in questo momento?

Le cosche sono circa centocinquanta. Le più potenti sono ancora quelle tradizionali: Piromalli e Molè a Gioia Tauro, Pesce e Bellocco a Rosarno, Alvaro a Sinopoli, Iamonte a Melito Porto Salvo, Barbaro a Platì, Romeo e Nirta a San Luca, De Stefano e Condello a Reggio, Commisso a Siderno, Aquino e Mazzaferro a Gioiosa, e così via. Devono essere citate le cosche Mancuso a Vibo, Arena a Crotone, Gallace a Guardavalle, e l’elenco potrebbe continuare per ciascuna delle regioni interessate.
Negli ultimi mesi sono stati assicurati alla giustizia latitanti di primo piano...
I latitanti calabresi, nonostante i numerosi e importanti arresti di questi ultimi anni, sono ancora un centinaio e forse più. Se sono stati catturati esponenti di spicco come Giuseppe Morabito, Orazio De Stefano, Pasquale Tegano, Roberto Pannunzi, Santo Maesano e altri ancora, restano ancora latitanti pericolosi come Pasquale Condello, in questo momento il numero uno tra i ricercati, e poi rappresentanti delle cosche Rosmini, Iamonte, Barbaro e molti altri ancora. È un problema serio in cui deve essere richiesto il massimo impegno da parte degli apparati investigativi, perché la presenza di latitanti rende vane le condanne se non seguite da effettiva espiazione della pena e costituisce ulteriore elemento di pericolo per la collettività.

La vecchia ’Ndrangheta si caratterizzava per la struttura chiusa e per la presenza di riti iniziatici di carattere quasi “esoterico”. Queste tradizioni permangono anche oggi?

Alcuni osservatori pensano che i riti iniziatici di affiliazione e di passaggio di grado appartengano al passato e rappresentino ormai una tradizione folkloristica e poco funzionale. Non è così. Esse sono state in qualche modo attenuate, perché, se anche avvolte da segretezza, tuttavia potevano essere rivelate dai collaboratori di giustizia. Oggi avvengono in forme ancora più segrete e con numero di partecipanti ancora più ristretto, ma sono indispensabili per definire appartenenza e gerarchie interne, indispensabili per rendersi “riconoscibili” in ogni parte del mondo, oltre che per rafforzare il senso di identità.

In che periodo la ’Ndrangheta ha fatto il salto di qualità entrando nel traffico di stupefacenti?

Nei primi anni Ottanta. Nel decennio precedente aveva rastrellato, attraverso la pratica dei sequestri di persona, ingenti capitali che ha poi investito nell’acquisto di morfina base, eroina, cocaina. È un’attività che non abbandonerà più e nella quale anzi acquisirà, nel tempo, un netto predominio rispetto alle organizzazioni concorrenti, grazie alla grande disponibilità di capitali, all’affidabilità nei pagamenti, alla disponibilità di una grande rete di distribuzione nelle regioni settentrionali e all’estrema mobilità su tutto lo scenario internazionale.

Come vengono reinvestiti gli immensi capitali derivanti da questi traffici?

Le forme di riciclaggio sono molteplici. Non è possibile farne una descrizione. Dai profitti del traffico di droga sono sorte imprese di costruzione, società finanziarie, immobiliari e commerciali. Si è investito nell’edilizia, nel commercio, nella grande distribuzione alimentare. Ingenti patrimoni si sono trasferiti nelle mani dei mafiosi e dei loro intermediari e prestanome. Gli investimenti maggiori sono stati operati nel nord Italia: ristoranti, alberghi, distributori di benzina, supermercati, villaggi turistici, fabbricati, aziende agricole, discoteche. Una buona parte è stata reinvestita nello stesso traffico di droga, oltre che in quello di armi, di valuta. Investimenti risultano nell’Est europeo, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, soprattutto a Praga e Bucarest, e quindi in tutta Europa, comprese città come Parigi, Bruxelles, tutta la Costa azzurra, la Spagna e così via. Un fiume di denaro che si moltiplica ad ogni transazione di droga e che finirà con l’inquinare l’economia e la politica del nostro Paese, così come è avvenuto in alcuni paesi del sud e centro America. Solo una piccola parte di questo denaro è stata investita in Calabria, che dunque non ha tratto alcun serio vantaggio dalla presenza della ’Ndrangheta, se non per effetti marginali. Al contrario, l’economia della regione ne è rimasta complessivamente impoverita.

Proprio a fini di riciclaggio e di spaccio di stupefacenti da molti anni la mafia calabrese è presente al Nord. Ultimamente si è parlato sui giornali della scoperta di “locali” in Liguria. Come spiega questa novità?

La presenza della ’Ndrangheta in Liguria non è affatto recente. Al contrario, la Liguria, insieme a Lombardia e Piemonte (compresa la Val d’Aosta) è una delle prime regioni che già negli anni Settanta conoscevano la presenza di numerose cosche in tutta la regione.
Tracce evidenti se ne trovano in numerosi processi condotti in quella regione, già all’epoca del famoso caso “Teardo”. Risulta la presenza delle cosche Asciutto, Grimaldi, Bruzzaniti, De Stefano (in particolare hanno operato in quella regione personaggi dello spessore di Paolo Martino e Vittorio Canale), e molte altre ancora. In Liguria esiste una struttura di ’Ndrangheta assai importante, detta “camera di compensazione”, in quanto ha il compito di raccordare le attività mafiose della regione con quelle dei “locali” di Nizza e dell’intera Costa Azzurra.

Come ha costituito la sua rete internazionale così capillare?

L’organizzazione della ’Ndrangheta è articolata a livello internazionale secondo gli stessi modelli organizzativi presenti nei territori di origine. Questa caratteristica è in fondo la sua arma segreta, quella che ne ha consentito sviluppo, durata, presenza in tutti i continenti. È uno sviluppo che si accompagna alla massiccia emigrazione che nella prima metà del Novecento avvenne dalla Calabria verso Australia, Stati Uniti, Canada, Belgio, Germania e altri Paesi ancora. A questo si accompagna la straordinaria mobilità che caratterizza alcune cosche, principalmente quelle della Locride, le quali non avendo un ricco territorio da sfruttare, al contrario di quelle operanti nella Piana di Gioia Tauro, hanno scelto di spostarsi al Nord Italia e nel mondo per dedicarsi ai traffici internazionali di droga. È stata una scelta vincente, che ha consentito alla ’Ndrangheta di acquisire il monopolio del traffico quasi totale di cocaina.
È in qualche modo calcolabile il suo giro d’affari complessivo, la sua potenza economica?
Il traffico internazionale di stupefacenti fornisce gli introiti più elevati, pari a circa l’80% del totale dei profitti. Si tratta di cifre dell’ordine di miliardi di euro, attraverso le quali la ’Ndrangheta (ma il discorso vale anche per le altre due grandi organizzazioni criminali del nostro Paese) è in grado di entrare nei circuiti finanziari internazionali e offrire capitali liquidi e pronti per investimenti ed affari, formalmente riconducibili a società ed imprese “pulite”, ma in realtà controllate dalla mafia.

Come spiega l’escalation di attacchi agli amministratori locali?

Dalla crescente pressione sulle amministrazioni locali deriva o l’infiltrazione delle amministrazioni comunali e provinciali o la serie di intimidazioni e attentati cui assistiamo quasi giornalmente. In qualche caso gli attentati nascono da contrasti interni tra schieramenti politici contrapposti, di cui uno si avvale di appoggi esterni mafiosi; in altri casi invece si tende a spingere gli amministratori colpiti alle dimissioni per sostituirli con altri di fiducia delle cosche. L’ombra della ’Ndrangheta si allunga sull’amministrazione e sulla politica; ai tradizionali collegamenti si sostituiscono sempre più frequentemente presenze dirette di esponenti delle organizzazioni mafiose all’interno dei consessi elettivi e degli organi amministrativi locali (Asl, consorzi ecc.).

In Calabria ci sono anche 28 consigli comunali sciolti per mafia dal 1995, 16 solo in provincia di Reggio. È plausibile che certi amministratori vengano colpiti perché non rispettano patti precedentemente intercorsi?

L’elevato numero di consigli comunali sciolti per mafia in Calabria (in percentuale il più elevato d’Italia) manifesta la pressione della ’Ndrangheta sulle amministrazioni locali allo scopo di condizionarne l’attività. L’estensione del fenomeno e la sua recente accelerazione fanno pensare a qualcosa di nuovo: si sta affermando in questa regione un nuovo modo di fare politica, non attraverso il confronto ma attraverso le armi e l’intimidazione. Se così fosse ci troveremmo di fronte ad una situazione eversiva dell’ordine democratico, dagli effetti devastanti. Quanto alle cause specifiche è chiaro che ciascuno dei Comuni interessati ha una storia a sé, ed è difficile tentare di darne una lettura omogenea. Quello che rileva è la tendenza che si va affermando, che è partita da livelli bassi (piccoli Comuni) a livelli sempre più alti (caso tipico il Comune di Lametia Terme) per sfiorare capoluoghi di provincia e addirittura l’amministrazione regionale.

La legge sul commissariamento secondo lei funziona o è un rischio di strumentalizzazione politica?

Non so dire se il commissariamento dei Comuni interessati dallo scioglimento per mafia degli organi elettivi abbia prodotto effetti positivi o meno. Ma se lo strumento non funzionasse vorrebbe dire che lo Stato non riesce a riprendere il controllo delle amministrazioni locali neppure in forma autoritativa e che le cosche continuano a dirigere la vita amministrativa locale a prescindere dalla guida formale. Occorre che gli scioglimenti dei consigli comunali siano accompagnati da incisive e approfondite indagini da parte delle Dda interessate, dal momento che le infiltrazioni costituiscono un elemento di prova dell’esistenza di un’associazione mafiosa attiva sul territorio.

Mafia è sinonimo di pizzo: è vero che in certe località calabresi, paradossalmente, nessuno paga il pizzo perché tutte le attività sono in mano alle famiglie?

La pratica, diffusa e capillare, di estorsione ed usura, ha lentamente provocato l’espulsione di molti commercianti e imprenditori dalle loro attività, passate nelle mani di prestanome dei mafiosi. In molti casi le estorsioni erano dirette a tale obiettivo. In prospettiva si assisterà ad un controllo sempre più esteso delle più rilevanti attività economiche del territorio in mani mafiose. Le regole del mercato, della concorrenza, il principio costituzionale della libera iniziativa economica, ne usciranno stravolte. Ancora una volta, la presenza della ’Ndrangheta produrrà effetti eversivi dell’ordine democratico e costituzionale, concetto nel quale è compreso l’ordine pubblico economico.

I fatti di cronaca delle ultime settimane – attentato con bazooka, ritrovamenti di quantità ingenti di espolsivo – possono presagire un salto di qualità nell’azione delle cosche?

Non credo si possa affermare che vi sia una escalation nell’uso della violenza. I metodi della ’Ndrangheta hanno sempre conosciuto l’uso delle armi, dell’esplosivo, della strage, quando esso si è reso necessario nella logica di potere interna ed esterna. Ciò tuttavia non deve far pensare ad una stagione stragista indiscriminata. La ’Ndrangheta ha sempre rifiutato l’opzione stragista anche quando Cosa Nostra la sollecitava ad aderire alla sua linea negli anni ’92 e ’93 e dunque non penso che vi sia un cambiamento in atto. Occorre però aggiungere che in tutti questi anni la ’Ndrangheta ha continuato ad acquistare armi pesanti ed esplosivo e questo non può non costituire motivo di preoccupazione e di massima vigilanza.

Come spiega questa attività anche in tempi di relativa pace tra le famiglie? È possibile ipotizzare un rapporto con terroristi internazionali, a livello anche solo di appoggi logistici o scambio di armi?

La possibilità di scambio di armi ed esplosivo con centrali terroristiche internazionali, dell’Est europeo e, oggi, anche del terrorismo islamico, è concreta, e in qualche caso verificata. D’altra parte gli uomini della ’Ndrangheta hanno collegamenti con tutti gli ambienti criminali internazionali, di qualsiasi genere e tipo e dunque non c’è da sorprendersi di questo. Molte di queste conoscenze sono dovute a comune detenzione, altre sono state stabilite sui mercati internazionali di droga e armi.

Lei ritiene che lo Stato investa abbastanza nella lotta a questa organizzazione?

Sicuramente no. Si tratta di una emergenza nazionale, dico meglio, europea, trattata spesso in modo burocratico e disattento. Le sottovalutazioni, siano colpose o dolose, sono state costanti e continuano tuttora. Iniziano dal Csm che non si è mai preoccupato della scelta di capi degli uffici particolarmente idonei ad operare in zone di mafia, dalla Commissione parlamentare antimafia che non elabora proposte normative ed operative utili sul piano dell’azione di contrasto, dagli organi ministeriali deputati alla selezione dei responsabili dell’ordine pubblico nelle province di ’Ndrangheta. In qualche caso, si è assistito, come si rileva dalla recente indagine della Dda di Catanzaro, ad una sorta di gradimento che esponenti mafiosi esprimono su prefetti e questori, che influiscono su nomine e trasferimenti.

Pensa che il piano per la Sicurezza presentato da Pisanu possa essere efficace?

Deve essere giudicato per ora a livello politico, mentre gli effetti potranno essere valutati tra qualche tempo. Non mi sembra tuttavia che esso contenga scelte strategiche nuove e diverse da quelle tradizionali. È inutile affermare che la ’Ndrangheta è oggi il fenomeno criminale più diffuso, potente e pericoloso se poi non si adottano misure pari al livello dell’obiettivo.

Qual è lo stato dell’antimafia in Calabria a livello di magistratura e di forze dell’ordine? Le forze sono sufficienti? Esistono le spaccature presenti in certe procure esposte come quelle di Palermo?

Le Dda di Reggio e Catanzaro hanno prodotto dal 1992 ad oggi una lunga e importante serie di indagini che si sono poi concluse con condanne pesanti nei confronti di centinaia di esponenti. Non c’è cosca che non sia stata indagata e colpita, non c’è esponente di spicco che non sia stato arrestato e giudicato. Centinaia sono gli ergastoli inflitti, migliaia gli anni di reclusione. Le forze dell’ordine hanno svolto un ottimo lavoro, ma non si può pensare che il lavoro sia concluso. Tutt’altro. La ’Ndrangheta si riproduce rapidamente, cambia strategie, tattiche, settori di intervento, modalità di comportamento. Bisogna indagare sempre senza adagiarsi sui risultati conseguiti. Eventuali debolezze, spaccature e quant’altro si traducono immediatamente in vantaggi poderosi per le organizzazioni, che colgono immediatamente queste evenienze per inserirsi in esse, quando non sono esse stesse a provocarle, al fine di disarticolare l’azione di contrasto. Recenti indagini lo confermano.

E a livello di antimafia sociale? Palermo ha avuto la su “primavera”, Reggio Calabria no...

La società civile calabrese è debole e disorganizzata. Ci sono confusione e paura. Comitati e gruppi che apparentemente si occupano di legalità e giustizia sono in qualche caso espressione di interessi mafiosi o strumentalizzati alla politica. In altri casi si assiste a volenteroso attivismo, a dichiarazioni generiche che evitano accuratamente di confrontarsi su temi, argomenti e personaggi specifici.

Perché la ’Ndrangheta produce pochi “pentiti”? Quanti sono attualmente?

Attualmente sono un centinaio, non pochissimi dunque, e una decina i testimoni di giustizia. Mancano, a differenza di quanto è avvenuto per Camorra e Cosa nostra, pentiti che abbiano ricoperto ruoli di vertice, che siano in grado di riferire sulle decisioni, sugli affari, sulle alleanze, sui rapporti internazionali, sugli accordi con la politica. E tuttavia il fenomeno del pentitismo non si è esaurito, nonostante tutto, e questo è un dato positivo. Nel corso del 2004 si sono registrate alcune importanti, nuove collaborazioni, che hanno consentito di aprire nuovi squarci di verità su vicende ancora inesplorate.

Lei ritiene che la nuova legge, che risale al gennaio 2001, abbia indebolito questo strumento?

Non ha certo aiutato nuove collaborazioni. Accanto a misure condivisibili, ve ne sono altre discutibili, quale, tra tutte, il limite di 180 giorni per rendere dichiarazioni, palesemente insufficiente nel caso di collaboratori di grosso rilievo. A questo si accompagnano altre norme, come quelle sull’estensione del giudizio abbreviato e del patteggiamento, attraverso le quali gli imputati riescono, anche in caso di condanna per gravissimi reati, a spuntare grossi sconti di pena dal momento che i benefici sono cumulabili nel corso del medesimo processo. Chi prima decideva di collaborare per evitare la prospettiva dell’ergastolo oggi non ha più interesse a farlo dal momento che l’ergastolo di fatto non si applica più se non in casi rarissimi.

Ci sono diversi personaggi che sono diventati uomini simbolo della lotta a Cosa Nostra: Falcone, Borsellino, Impastato, Chinnici, don Puglisi e tanti altri. A loro vengono dedicati film, fiction, spettacoli teatrali. Di loro sappiamo molto, anche umanamente. Perché, invece, di chi contrasta la ’Ndrangheta si sa poco o nulla?

Forse nell’azione di contrasto sono mancati gli uomini simbolo che la Sicilia ha invece avuto: anche questo ha costituito, in fondo, motivo di scarsa visibilità del fenomeno, ma non penso che sia poi un grosso problema. È importante non tanto la presenza di singoli, per quanto di grande valore, ma di strutture efficienti e organizzate, di esperienze operative consolidate, di capacità di visione strategica di medio e lungo termine. La scelta degli uomini che guidano le strutture investigative e giudiziarie preposte all’azione di contrasto deve rispondere ai requisiti che ho detto prima. Non posso dire che sia stato questo il criterio che ha sempre guidato tali nomine.

Lei è particolarmente esposto nella lotta alla mafia calabrese. Quali ripercussioni sulla sua vita privata?

Non mi piace parlare di me. Non mi sento recluso, né isolato, ma parte attiva di una struttura efficiente, organizzata compatta, come la Direzione nazionale antimafia, che a sua volta coordina le strutture territoriali (le Dda) preposte alle indagini sui reati di stampo mafioso. Quello che voglio fare rilevare è che è normale e scontato che le organizzazioni mafiose tentino di ostacolare il nostro lavoro con ogni mezzo. Meno scontato è che ostacoli ancora maggiori di quelli mafiosi provengano da determinati ambienti istituzionali, politici, sociali, che dovrebbero invece affiancare e sostenere l’operato della magistratura.

Lei crede veramente che la ’Ndrangheta possa essere sconfitta?

A patto che non si verifichino quelle condizioni di contiguità che le ho appena indicato. Una mafia che non sia sostenuta da collaboratori esterni politici e istituzionali avrebbe certamente maggiori difficoltà a difendersi da una azione di contrasto intelligente ed organizzata, protratta nel tempo e inserita in un contesto europeo e internazionale di collaborazione.