Legalità e sviluppo nella Piana di Gioia Tauro
Elementi per un confronto su un'area della Calabria

1 La Piana di Gioia Tauro attraverso i dati statistici
2 La 'ndrangheta: premodernità e globalizzazione
3 Lo sviluppo possibile: il Porto di Gioia Tauro
4 Collaborare per crescere
5 I nuovi sindaci: il pericolo del campanilismo, i vantaggi della cooperazione
6 Una società ammutolita
7 Prospettive

 

1. La piana di Gioia Tauro attraverso i dati statistici
Composta da trentatré comuni di modeste dimensioni, relativamente simili dal punto di vista economico e culturale, ma disomogenei sul piano politico ed amministrativo, la Piana di Gioia Tauro, per le sue caratteristiche strutturali, è un'entità complessa, difficilmente confrontabile con altre realtà del Mezzogiorno.

La popolazione residente complessiva, secondo la rilevazione Istat del 1997, è pari a 170.749 abitanti, con Palmi e Gioia Tauro in testa alla classifica dei comuni più popolati, rispettivamente con 19.758 e 18.558 abitanti (tab.1). In tutta la zona della Piana si registra una densità abitativa elevata con un totale di 183,4 abitanti per Kmq, superiore a quella che si registra nel Sud e nelle isole (170,2 abitanti per Kmq) e di poco inferiore a quella nazionale (191,0 abitanti per Kmq). Questi dati trovano spiegazione nella tendenza di una parte della popolazione della Piana a conservare una vocazione rurale, tale da favorire la distribuzione sul territorio in maniera abbastanza omogenea.

Un altro dato che lascia presumere una significativa presenza di popolazione rurale e anziana, è il valore dell'analfabetismo (9,1%), molto elevato sia rispetto al panorama italiano (2,1%) che rispetto alla situazione complessiva del Sud Italia (3,9%). Al fenomeno dell'analfabetismo si contrappone un livello d'istruzione universitaria che è nella media: la percentuale dei laureati (2,6%), infatti, sfiora la media meridionale (3,0%), ed è di poco inferiore a quella nazionale (3,8%). Bisogna quindi tener sempre presente che i dati sull'istruzione si riferiscono alla totalità della popolazione, anziani compresi che, come si è già detto, hanno in generale un livello d'istruzione più basso rispetto alle nuove generazioni. Inferiore alla media il dato sui diplomati, che rappresentano l'11,9% della popolazione della Piana, contro il 14,4% al Sud e il 18,5% della nazione. Se si considera la tendenza tipicamente meridionale, e presente anche nella Piana, di far studiare i figli, in quanto lo studio è inteso come strumento di promozione sociale, unitamente alla crisi occupazionale del Sud che spinge a proseguire gli studi in attesa di una prospettiva migliore, si ha una società fortemente polarizzata tra una fetta di popolazione giovane e scolarizzata e una quota di anziani in possesso dei livelli minimi di istruzione.

Le valutazioni sui consumi culturali delineano una situazione scarsamente vitale. Rilevazioni relative al 1996 segnalano la presenza di 3 sole sale cinematografiche (2 a Cittanova e 1 a Gioia Tauro) e di 77 associazioni culturali, quasi tutte a Gioia Tauro e a Palmi (tab. 2).

Per quanto concerne il contesto economico, è da rilevare la presenza nella Piana di un numero di operatori economici inferiore alla media (nel 1996 erano 29,3 per 1000 abitanti contro il 37,2 di tutto il Sud e il 53,6 della media italiana).

I consumi energetici per uso non domestico sono indicatori del livello di industrializzazione di un'area, e sono particolarmente efficaci per individuare le dinamiche del settore dominante dell'industria italiana, quello manifatturiero. Nel caso della Piana di Gioia Tauro, i consumi di energia elettrica sono inferiori alla metà rispetto a quelli calcolati sull'intera popolazione meridionale (700,1 Mwh rispetto ai 1598,2 del Sud e delle isole) e testimoniano la scarsa vitalità economica dell'area. Gli utenti di energia elettrica per uso non domestico della Piana si collocano invece su valori che, in misura percentuale, sono pari a quelli del Sud e dell'Italia. In particolare, gli utenti della Piana di Gioia Tauro ammontano a 18.447, cioè il 10,8% della popolazione residente, percentuale superiore sia ai valori registrati nel Sud nel suo complesso (2.208.622 utenti, cioè il 10,5%), che al dato nazionale (6.133.764 utenti, cioè il 10,6%). L'esiguità dei consumi, dunque, testimonia una realtà fatta di aziende di piccole dimensioni, ma lascerebbe anche supporre la presenza qualche forma di economia sommersa.

E' comunque evidente che la Piana di Gioia Tauro alterna realtà in espansione con zone fortemente depresse e la causa di queste accentuate diversità è da rinvenire nella collocazione geografica: alcuni comuni si avvantaggiano di una effettiva vicinanza con Gioia Tauro e l'asse ferroviario-autostradale, ma la maggioranza dei centri abitati si disperde tra le pianure e le montagne circostanti, senza poter godere degli effetti benèfici della prossimità con il porto.

Per meglio cogliere le dinamiche socioeconomiche in atto nei singoli Comuni, è possibile visualizzare una tabella nella quale i dati precedentemente presentati aggregati vengono scorporati per comune (tab. 3).

Restano i dati sulla criminalità. Negli ultimi anni è da segnalare un costante calo dei reati denunciati ai Carabinieri (tab. 4). Rispetto al 1996, nel 1997 il totale dei reati è diminuito del 15,3% passando da 4.089 a 3.463. Non è stato possibile calcolare la variazione percentuale rispetto al 1998, mancando la rilevazione dei reati negli ultimi due mesi, ma la tendenza, anche in valore assoluto, resta quella di una netta contrazione del numero dei reati che erano 2.563 al 30 ottobre 1998. Questo dato non deve però lasciar pensare ad una lenta, seppur difficile, transizione verso una situazione di normalizzazione dell'ordine pubblico. I dati relativi alle varie tipologie di reato disegnano infatti situazioni diversificate.

Se è vero che gli omicidi sono in deciso calo (da 21 del 1996 a 11 del 1998), non altrettanto può dirsi per altre categorie di crimini che alimentano il clima di insicurezza sociale. Le denunce per estorsione, per esempio, diminuite del 27,3% tra il '96 e il'97, hanno registrato un vistoso incremento nell'ultimo anno (da 11 nel '96 sono passate a 38). Questo dato si presta ad una duplice lettura: da una parte, in chiave positiva, il fenomeno può essere letto come il sintomo di una ribellione dei cittadini alle leggi del racket; dall'altra però, può essere interpretato come il segnale di una pressione sul territorio piuttosto consistente. Il controllo sul territorio, tipico delle zone ad alta densità mafiosa, è evidenziato inoltre dall'aumento del numero degli incendi dolosi, tradizionali atti intimidatori messi a punto dal crimine organizzato (da 140 casi nel '96 a 226 nel '98).

L'aumento delle denunce di associazione di stampo mafioso (passate da 117 nel 1996 a 211 al 30 ottobre del '98) testimonia lo sforzo compiuto dalle forze dell'ordine nell'azione di contrasto della malavita organizzata, ma anche le proporzioni ragguardevoli del fenomeno. E' da segnalare, infatti, che una sola denuncia può riguardare anche un gruppo composto da più elementi.

Tanti arresti potrebbero forse chiarire anche il calo delle rapine: negli ultimi anni hanno seguito un trend sinusoidale, aumentando nel '97 (sono passate da 82 a 103) e scendendo a 45 nel '98. Si tratta di un dato significativo perché questo reato non è ricollegabile tanto a fenomeni di microcriminalità, quanto alla malavita organizzata (anche di stampo mafioso) e al suo urgente bisogno di liquidità.

Al contrario, i furti sono tipici reati di criminalità diffusa. Il loro declino (da 1.408 a 1.077 fino a 809 negli anni considerati) è il segno del forte controllo esercitato dalle forze dell'ordine, ma può anche essere interpretato come un sintomo della pervasività della criminalità organizzata: nelle organizzazioni criminali della Piana, infatti, per la natura polverizzata del territorio, ripartito in tante entità comunali, è possibile rinvenire delle similitudini con la mafia rionale, dove il boss di quartiere, tutore dell'ordine nel proprio microcosmo, argina le attività illecite.

 

2. La 'ndrangheta: premodernità e globalizzazione
Piromalli, Molè, Pesce, Bellocco, Raso, Albanese, Facchinieri, Asciutto, Neri, Avignone, Zagari... nomi tipicamente calabresi, nomi di famiglie della Piana; ma sono anche i nomi di alcuni dei principali gruppi 'ndranghetisti che operano nell'area. L'elenco non è completo: per ultimarlo si dovrebbero aggiungere altri cognomi, che indicherebbero altre famiglie, e quindi altre 'ndrine, o "locali".

Ragionare sulla presenza mafiosa nella Piana significa fondamentalmente interrogarsi sull'arcaicità o modernità (se non post-modernità) dell'organizzazione 'ndranghetista. Parlare di 'ndrine, di famiglie, di faide, di comparaggi potrebbe far pensare a isole relitte di un passato premoderno, nel quale, in assenza dei moderni spazi di socializzazione, la comunità si articola sui vincoli di parentela. Questa lettura del fenomeno 'ndranghetista potrebbe essere corroborata dal forte aspetto rituale dell'organizzazione rispetto a quelle campane e a quelle siciliane: i cerimoniali di affiliazione, i giuramenti, le periodiche riunioni presso il Santuario della Madonna di Polsi, ci riportano alla vita di una Calabria contadina e pastorale, ad un mondo arcaico che resiste alle logiche della modernità, prima tra tutte quella del mercato.

Se si guarda a quella che ragionevolmente si può considerare l'attività mafiosa primaria, ovvero l'estorsione, che senza dubbio ha diffusione capillare nella zona della Piana ed ha il pregio di esemplificare il concetto di "controllo del territorio", ciò che avviene è proprio questo: un contrasto tra una logica (premoderna) di appartenenza, in base alla quale le "locali" 'ndranghetiste dispongono della propria zona di insediamento, e quella (moderna) del capitale che fa della libertà di movimento e di insediamento una delle proprie leggi irrinunciabili. Da una parte il conservatorismo della 'ndrangheta, dall'altro il dinamismo dell'imprenditoria: dinamismo che lo 'ndranghetista accetta di tollerare solo sottoponendo l'impresa al pagamento del pizzo. Pagamento che, come analisi aggiornate del fenomeno hanno provato, porta ad una limitazione della capacità di crescita dell'attività economica, se non ad un suo deperimento. E senz'altro costituisce un fattore di disincentivazione (anche se non l'unico) per l'insediamento produttivo.

Certamente non si vuole dire che il mancato decollo economico della Piana sia ascrivibile solo e soltanto alla forte e capillare presenza 'ndranghetista. Il Porto sta lì a dimostrare che, date alcune condizioni, è possibile insediare attività economiche d'avanguardia anche in quest'area. Ma i tentativi di imposizione del pizzo esercitati sulla Medcenter e il "deserto" imprenditoriale che circonda il Porto non possono non far ritenere che la presenza mafiosa abbia avuto un peso determinante nell'instaurazione di un clima sostanzialmente sfavorevole all'imprenditorialità, sia quella indigena che quella "d'importazione".

E' poi vero che in passato aziende p. es. settentrionali, venendo a lavorare nella Piana, hanno accettato l'imposizione del pizzo e l'hanno fatto rientrare nella contabilità generale dell'affare che conducevano (creando così un "consolidato d'estorsione" simile a quello dei commercianti che operano in centri sottoposti ad esazione mafiosa); ma gli esempi sono sempre relativi a grandi imprese di costruzioni, la cui presenza è temporanea e legata ad un mercato anomalo (quello delle commesse pubbliche, nel quale il costo delle opere pubbliche non era determinato da logiche di mercato). L'estorsione alle imprese può aver comunque svolto una funzione di disincentivazione dell'insediamento produttivo in due modi:
• direttamente, quando un'impresa rinuncia ad insediarsi per il timore dell'esazione mafiosa, per la mancanza di sicurezza in un'area controllata dalla mafia o (specie in provincia di Reggio Calabria) per timore dell'incolumità personale dell'imprenditore a causa dei sequestri di persona;
• ma soprattutto indirettamente, perché il controllo mafioso sulle opere pubbliche ha un impatto estremamente negativo sulla dotazione infrastrutturale delle aree interessate, rendendole così poco appetibili per eventuali investitori nazionali od esteri.

Si ha così il circolo vizioso di una premodernità che, pregiudicando lo sviluppo, genera arretratezza, stagnazione socioculturale, perfino degrado, quindi condizioni favorevoli al mantenimento di quelle sacche di arcaicità che sarebbero le organizzazioni mafiose.

Eppure porre la 'ndrangheta sotto il segno della premodernità e l'impresa sotto quello della modernità e/o postmodernità, per quanto possa essere attraente quest'immagine, non ci consentirebbe di cogliere nella sua interezza la natura dell'organizzazione mafiosa così come si manifesta nella Piana, e (quel che è più importante) la sua capacità di interferire con le dinamiche dello sviluppo socioeconomico.

Va detto innanzitutto che la situazione della criminalità nella Piana è notevolmente articolata. Troviamo infatti centri nei quali il radicamento 'ndranghetista è tenue, se non inesistente (il che non deve far ritenere che essi siano immuni dalla minaccia mafiosa, date le dimensioni ridotte dell'ambito territoriale che stiamo analizzando), e centri dove sono attive 'ndrine vaste, ricche, potenti e provviste di un prestigio riconosciuto ben al di là dei confini della Piana, come Rosarno e ancor di più Gioia Tauro. Tra questi due estremi troviamo una gamma di situazioni ben differenziate.

Ma anche dal punto di vista qualitativo, l'insediamento 'ndranghetista è ben diverso. Si va da famiglie impegnate in vere e proprie faide (è il caso di Oppido Mamertina), quindi ancora ferme ad un livello primitivo di attività criminosa, a gruppi come quello dei Piromalli-Molè, dove il nucleo "dirigenziale" della cosca è costituito da una famiglia, ma circondata da una vasta organizzazione con decine di affiliati congiunti da legami parentali sempre più tenui, e in numerosi casi non legati da rapporti di parentela. Si va da 'ndrine di piccole dimensioni impegnate in attività di controllo del commercio oleario, a grandi gruppi con ramificazioni imprenditoriali, impegnati nei traffici internazionali di stupefacenti, con capacità sofisticate di riciclaggio dei capitali sporchi. Si va da "locali" con un raggio d'azione limitato al comune di residenza a gruppi in grado di "dialogare" con le grandi cosche di Reggio Calabria (le indagini della magistratura indicano nella diarchia Piromalli-De Stefano l'asse di riferimento "politico" della 'ndrangheta nel suo complesso), di giocare un ruolo di mediazione e risoluzione dei conflitti tra "locali" a livello provinciale, di interagire con gruppi criminali esteri per gestire traffici internazionali. Si va da gruppi dediti alle più tradizionali attività criminali (dal racket alle rapine) a organizzazioni con considerevoli investimenti in una gamma di attività legali che va dal settore sanitario a quello dei trasporti, dall'edilizia allo smaltimento dei rifiuti, dal commercio all'agro-alimentare. Infine, l'arcipelago 'ndranghetista della Piana comprende gruppi che si sono limitati ad esercitare pressioni dall'esterno sul mondo politico (talvolta con modalità "teatrali", come l'apparizione del boss nella sala del consiglio comunale al momento della votazione), ma anche "locali" che si sono sostituite alla politica, con boss che si sono fatti eleggere direttamente o hanno piazzato nelle istituzioni affiliati o "uomini di paglia" di loro fiducia.

Ragionare intorno alla presenza 'ndranghetista nella Piana, e non in questo o quel Comune, proprio per la diversità delle situazioni locali, non è facile, come lo sarebbe raccontare la storia della 'ndrangheta, poniamo, a Rosarno piuttosto che a Polistena. Ma è sulla scala intercomunale che va articolata questa analisi, ed è quindi necessario riflettere sugli ostacoli che tale presenza frappone allo sviluppo dei 33 comuni della Piana di Gioia Tauro, considerati come insieme organico.

Vanno allora rilevate le seguenti problematiche comuni:

1 Capillarità della presenza mafiosa: stime recenti dell'arma dei Carabinieri fanno ammontare la consistenza dell'esercito 'ndranghetista a circa 3.000 affiliati con precedenti penali nella Provincia di Reggio Calabria, circondati da 7-8.000 persone ad essi congiunte da vincoli di parentela. Sarebbe certo incauto affermare che tutti i parenti degli 'ndranghetisti partecipano a pieno titolo all'attività criminale delle "locali", ma sarebbe anche peccare di eccessivo ottimismo ritenere che nessuno dei 7-8.000 congiunti abbia partecipato, partecipi o possa (su richiesta o di propria iniziativa) partecipare alle attività criminali nella 'ndrina. La forza effettiva della 'ndrangheta potrebbe essere ragionevolmente stimata attorno alle 6-7.000 unità nella provincia, con un rapporto di un mafioso ogni trecento abitanti circa.

Si tratta della più elevata densità mafiosa in tutto il Mezzogiorno, più che doppia rispetto a quelle riscontrabili in Sicilia e Campania. Ciò aiuta a misurare quale possa essere la pervasività del controllo 'ndranghetista sul territorio; controllo reso ancor più facile dal fatto che nella Piana non esiste alcun centro oltre i 20.000 abitanti (i testimoni della realtà locale concordano nel ritenere che la pressione mafiosa è meno soffocante a Reggio, essendo più diluita nel contesto di un capoluogo di 180.000 abitanti). In un piccolo centro dove, come si suol dire, "tutti conoscono tutti", anche gli 'ndranghetisti conoscono (e controllano) tutti e tutto.

2 Capacità di infiltrazione nell'ambito economico: il momento cruciale nell'evoluzione delle 'ndrine della Piana è senz'altro stata la costruzione del Porto di Gioia Tauro. Essa ha consentito a questi gruppi criminali di fare lo stesso salto di qualità che la camorra campana ha compiuto grazie alla ricostruzione dopo il terremoto dell'Irpinia. Fondamentalmente i lavori per il Porto hanno assicurato alle 'ndrine un considerevole flusso finanziario di provenienza pubblica sia in modo indiretto (estorsione praticata nei confronti di tutte le aziende impegnate nei cantieri) che diretto (partecipazione ad appalti, ma soprattutto a subappalti e contratti di fornitura, mediante aziende di proprietà dei boss, di loro parenti o di prestanome).

Ma soprattutto essi hanno consentito a questi gruppi di accedere alla dimensione imprenditoriale, acquisendo considerevoli capacità di controllo degli appalti, acquisizione coatta di imprese pulite, creazione di monopoli locali, "lavaggio" di capitali derivanti da altre attività criminali (estorsione o traffici di droga). Dalla 'ndrangheta "arcaica" delle faide e del mondo rurale si è giunti così ad una 'ndrangheta non solo moderna, ma pronta a cogliere le opportunità derivanti dalla globalizzazione.

3 Capacità d'infiltrazione nelle istituzioni: l'elevato numero di comuni sciolti per motivi di mafia rende un'idea della capacità di infiltrazione nelle istituzioni delle 'ndrine. Lo 'ndranghetista, a differenza del mafioso siciliano, non si limita ad intrattenere rapporti più o meno stretti e sistematici con elementi della politica, dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione: lo 'ndranghetista diventa politico, imprenditore, funzionario statale. La 'ndrangheta manifesta insomma una tendenza ad occupare direttamente tutti quegli spazi, pubblici e non (ma con una preferenza per quelli non trasparenti) dove avvengono mediazioni politico-economiche. Lo dimostra, oltre all'occupazione dei comuni, la decisione presa negli anni '70 da parte delle "locali" di autorizzare l'iscrizione dei capi cosca alla massoneria: ciò avrebbe consentito ai boss di inserirsi in ambienti dove fosse possibile contattare imprenditori, professionisti, magistrati, politici, insomma in un luogo privilegiato degli scambi e delle transazioni in un'area di forte tradizione massonica quale la Calabria.

4 Capacità di interazione delle "locali": un'immagine ormai datata della mafia calabrese contrapponeva il sistema piramidale di controllo delle attività criminali esistente in Sicilia (e incarnato dalle cupole provinciali e da quella regionale, saldamente dominate dai Corleonesi) alla frammentazione regnante in Calabria, dove gruppi ben più ridotti operavano ognuno nel suo piccolo centro, senza forme di coordinamento. Le indagini più recenti provano che le cose non stanno più così almeno a partire dall'inizio degli anni '90. Fu allora che, per risolvere la grave crisi costituita dalla sanguinosa guerra di mafia che dal 1985 contrapponeva nel capoluogo provinciale i De Stefano e gli Imerti-Condello, venne costituita (forse su ispirazione di Cosa Nostra) una commissione provinciale di controllo, che aveva il compito di appianare i conflitti interni, curare i rapporti col mondo politico, difendere la 'ndrangheta dai collaboratori di giustizia.

Da allora il tasso di conflittualità tra le varie "locali" è calato in modo drastico, e ciò non deve essere inteso tanto come segno di alleggerimento della presenza mafiosa, quanto come vera e propria pax mafiosa imposta dai gruppi più forti per far calare l'allarme sul fenomeno e indurre società civile e Stato ad abbassare la guardia. Il basso numero di omicidi "interni" e l'assenza di omicidi eccellenti (con la possibile eccezione del recente caso Iocolano) sarebbero quindi una bonaccia quanto mai ingannevole.

Va inoltre tenuta presente la capacità ampiamente dimostrata da parte delle "locali" di consorziarsi su base paritaria per condurre di concerto affari criminali, nonché la delega di specifiche attività criminali esercitata dalle "locali" più ricche e potenti a gruppi minori di centri confinanti (dinamica che nella Piana vede protagonista la cosca dei Piromalli). Le 'ndrine sembrano insomma aver capito (fatte salve alcune eccezioni marginali, come i gruppi di Oppido) che l'unione fa la forza.

5 Dimensione nazionale/internazionale del fenomeno: tutt'altro che rinserrate nel loro territorio d'origine, le 'ndrine hanno manifestato negli ultimi anni una notevole capacità di colonizzazione, aprendo "filiali" in altre parti del nostro paese e all'estero. Insediamenti 'ndranghetisti sono stati scoperti in Lombardia ed in Piemonte (particolarmente eclatante il caso di Bardonecchia, uno dei pochi Comuni del Nord sciolto per motivi di mafia); altri gruppi hanno operato ed operano in contesti diversificati e in alcuni casi remoti come Germania, Francia, Canada e Australia.

Ciò dà una misura della vitalità dell'organizzazione calabrese, ma soprattutto aiuta a capire quanto l'idea della 'ndrangheta come mafia arcaica sia ormai del tutto superata. Le "locali" hanno infatti dimostrato di sapersi avvalere benissimo della dimensione internazionale per le proprie attività; inviando latitanti presso le "filiali", facendosi inviare killer dai gruppi operanti all'estero; gestendo traffici internazionali di droga, armi, materiali radioattivi; interfacciandosi con gruppi esteri come la mafia turca, quella russa, i cartelli colombiani, ecc.

Tutto ciò porta a ritenere che, nonostante l'attuale fase di calma apparente, la 'ndrangheta sia un'organizzazione agguerrita e sofisticata, e che goda al momento di migliore salute di Cosa Nostra e della Camorra. E che sia ancora la principale ipoteca, anche se non l'unica, sulle possibilità di sviluppo socioeconomico della Piana di Gioia Tauro.

 

3. Lo sviluppo possibile: il porto di Gioia Tauro
Sono passati tre anni da quando la prima nave attraccò al largo del porto di Gioia Tauro per effettuare attività di transhipment (passaggio della merce dalle navi di grandi capacità alle navi feeder di dimensioni minori). Da allora i volumi di traffico sono aumentati vertiginosamente in un tempo brevissimo: 50 scali nel 1995 con 17.000 teus, 1.331 nel 1996 con 572.000 teus, 1.448 nel 1997.

Parallelamente al crescere delle attività, sono stati spesi fiumi di parole sul futuro del porto. All'inizio, di ammirazione per la scelta coraggiosa di un imprenditore genovese; poi di speranza per la crescita economica di tutta la Piana e della Calabria; e ancora di entusiasmo per il successo dell'iniziativa imprenditoriale. Con il passare del tempo, però, gli stati d'animo nell'area sono mutati; e all'entusiasmo è subentrata la delusione per il ridotto impatto occupazionale; lo scetticismo e l'amarezza per i ritardi nella realizzazione delle opere necessarie allo sviluppo dell'area connesse alla presenza del Porto; infine l'insoddisfazione per i primi progetti operativi delineati (come il master plan presentato dal Ministero dei Trasporti).

Certo, chi pensava che il porto avrebbe risolto immediatamente i problemi della disoccupazione della Calabria, o che Gioia Tauro sarebbe diventata in men che non si dica la "Genova del Sud", probabilmente è deluso. Ma tali aspettative dipendevano in gran parte dal fatto che la società locale non aveva le idee molto chiare su cosa fosse effettivamente un porto. La Piana di Gioia ha una cultura fondamentalmente agricola: il mare è stato vissuto più che altro come scenografico fondale per le coltivazioni di olivi ed aranci. Il porto era un "oggetto misterioso", e soprattutto, era legato dall'origine alla fallimentare vicenda del V centro siderurgico prima e della centrale elettrica a carbone dopo. Non ci si deve meravigliare se molti lo hanno assimilato a quei precedenti progetti, frutto della famigerata "cultura delle inaugurazioni", attendendo gran copia di posti di lavoro concessi con criteri assistenziali se non clientelari.

Ma il porto era ed è un'iniziativa imprenditoriale d'avanguardia, concepita e realizzata secondo logiche di mercato. Sono ormai storia le reazioni di alcuni esponenti politici dell'area al momento delle assunzioni, e se riprendiamo questa storia ormai archiviata è perché essa è indice rivelatore della cultura della dipendenza (col suo portato di assistenzialismo, statalismo, nei peggiori casi clientelismo) che è alla radice delle aspettative eccessive e mal poste nei confronti del Porto.

Oggi comunque l'esperienza del transhipment a Gioia Tauro sta lì a dimostrare che:
• è possibile per un imprenditore esterno fare investimenti di successo anche nelle aree più depresse dal punto di vista socioeconomico;
• è possibile avere un'impresa che funziona anche in uno dei territori maggiormente infestati dalla 'ndrangheta;
• ci sono 700 giovani calabresi impiegati nella MedCenter e che oggi costituiscono quella che un intervistato ha definito come l'"aristocrazia operaia" della zona, in possesso di professionalità spendibili sul mercato del lavoro e soprattutto di una cultura del lavoro "vero". Questi giovani (e le loro famiglie) rappresentano un aurorale punto di partenza per un cambiamento di mentalità e di atteggiamento, comunque necessario;
• esiste comunque la possibilità di sviluppare un indotto a terra che non potrà risolvere da solo tutti i gravi problemi occupazionali dell'area, ma potrebbe costituire una fonte di lavoro assai più consistente di quelle attuali per i giovani della Piana e della Calabria.

Infatti, è opinione condivisa che nel porto di Gioia Tauro manchino ancora alcuni servizi indispensabili anche per lo svolgimento dell'attuale attività portuale (si va dalla ristorazione per i dipendenti e per i marinai in transito a servizi di trasporto che colleghino il porto con i centri circostanti); ma che opportunità occupazionali ben più consistenti potrebbero derivare da un potenziamento dello scalo in direzione della polifunzionalità.

La tendenza attuale dell'attività portuale è infatti quella di una concezione logistica integrata, con il porto che diviene terminal intermodale in grado di connettersi al territorio (provinciale, regionale, nazionale) anche attraverso modalità di trasporto alternative rispetto a quella marittima. Ciò significa realizzare un allaccio ferroviario più ampio, ma soprattutto potenziare le due principali arterie alle quali si connette il porto, cioè l'Autostrada Salerno-Reggio Calabria e la linea ferroviaria tirrenica.

Altre opzioni sono state inoltre avanzate da parte di intervistati, che meritano sicuramente attenzione:
• data la posizione strategica del porto nel centro del Mediterraneo (che era già stata alla base dell'intuizione imprenditoriale di Angelo Ravano, l'"inventore" del progetto transhipment a Gioia Tauro), sarebbe da valutare con grande attenzione la realizzazione di infrastrutture cantieristiche nell'area del porto, finalizzate soprattutto alla manutenzione delle grandi navi portacontainer;
• data la distanza ridotta dalle isole Eolie, il porto potrebbe diventare uno scalo per il traghettamento passeggeri competitivo con Milazzo e Messina, avvalendosi dell'accorciamento del percorso che la sua posizione offre a chi viene dal Nord;
• nel quadro di un potenziamento del trasporto marittimo da e per la Sicilia, Gioia Tauro sarebbe uno scalo competitivo rispetto a Reggio Calabria e Villa S. Giovanni, per linee di navigazione che operino con quei nuovi scafi veloci che già hanno consentito un dimezzamento dei tempi di percorrenza Sardegna-continente.

Ma anche con questo potenziamento l'attività portuale, che è in gran misura meccanizzata ed automatizzata, non potrà mai abbattere la disoccupazione nella Piana. Non è in effetti il porto di per sé che farà lo sviluppo dell'economia dell'area. Il porto deve essere visto sostanzialmente come fattore favorevole allo sviluppo, fattore di grande peso, ma da solo non determinante.

Il problema della Piana è in realtà come far interagire la realtà mondiale e vitale del porto con quella disagiata e stagnante dell'entroterra. Per questo motivo bisogna smistare le merci per l'entroterra, cioè far diventare il porto un terminale per le attività produttive da insediare in zona.

Perché se Gioia Tauro, oltre alla fortunata attività di transhipment saprà diventare anche porto industriale, l'area diverrà inevitabilmente appetibile per i grandi investitori.

Ma il lavoro più grosso non è quello da fare nello scalo marittimo, bensì quello che va svolto a terra.

In tale contesto diviene prioritario un adeguamento della rete infrastrutturale, oggi del tutto insufficiente; sia nella componente su gomma, sia in quella su ferro, sia in quella aerea; ma anche un rafforzamento della struttura imprenditoriale della Piana.

Per quanto riguarda il primo punto, i problemi sono molteplici:
• carenza dei collegamenti viari "orizzontali" tra le diverse città della Piana e tra queste e il porto, per cui distanze che in linea d'aria sono di pochi chilometri richiedono lunghi tempi di percorrenza;
• inadeguatezza della rete ferroviaria locale esistente (la ferrovia calabro-lucana oggi è adibita esclusivamente al trasporto dei passeggeri);
• limiti strutturali e gestionali dei due scali aeroportuali che servono l'area, quello di Lametia Terme e quello di Reggio Calabria;
• insufficienza (se non, addirittura, pericolosità) della rete autostradale.

La paradossale situazione che si è venuta a creare è stata ben sintetizzata da uno degli intervistati: Gioia Tauro è collegata a tutto il mondo tranne che a Gioia Tauro stessa.

Sul secondo punto (quello del rafforzamento delle attività produttive) esistono una serie di progetti che "gravano" sull'area (da quello dell'ASI, al Contratto d'area, al Patto territoriale, al master plan del Ministero dei Trasporti) che però si scontrano con la difficoltà da parte dei governi locali di:
• uscire dalla mentalità formalistico-burocratica del potere di veto, se non del clientelismo;
• smettere di concepire l'intervento per lo sviluppo come occasione per la creazione di posti di lavoro garantiti o l'elargizione di fondi a questo o quel centro;
• acquisire una professionalità necessaria per trattare con i grandi investitori internazionali, il governo nazionale, le istituzioni comunitarie, ecc.;
• entrare in una logica nella quale il ritardo nella realizzazione di opere per lo sviluppo è già di per sé un fallimento;
• rinunciare a radicate ma dannosissime logiche di mero campanile a favore di una visione più ampia e sicuramente, in prospettiva, più redditizia.

In ogni caso, la realtà del porto e il successo dell'iniziativa imprenditoriale vanno difese (anche dagli attacchi della criminalità organizzata), e va anche abbandonata la speranza in uno sviluppo tutto proveniente dall'esterno, sia esso l'imprenditore settentrionale o estero che investe, o lo Stato che gestisce assistenzialmente le grandi opere o crea "posti fissi" in barba ad ogni logica economica. Oggi il porto rappresenta una grande occasione di crescita per tutta la zona che, però, deve essere colta principalmente da chi sul posto lavora per lo sviluppo.

 

4. Collaborare per crescere
Trentatré comuni uniti da una grande piaga sociale: la disoccupazione che, in queste realtà, è soprattutto giovanile e soprattutto intellettuale. Questo è il primo fenomeno che viene descritto a chi, da osservatore esterno, si trova ad analizzare la realtà socioeconomica della Piana.

Trentatré comuni che oggi si trovano ad avere una grande opportunità di sviluppo determinata da un'iniziativa imprenditoriale, il porto, che finora è cresciuto esclusivamente sulle attività di transhipment ma che, in futuro, potrebbe alimentare un indotto a terra per tutta la zona circostante. Questo è il secondo motivo ricorrente dei colloqui con i testimoni locali.

In realtà, se si prova a scavare oltre la realtà della disoccupazione e la prospettiva del porto (ed è quello che abbiamo cercato di fare mediante le visite e i colloqui con i protagonisti della realtà locale), la situazione economica, nella sua indubbia problematicità, risulta assai più variegata ed offre altri spunti di analisi e di proposta.

Un primo dato è quello relativo alla composizione dell'economia dell'area: si tratta di una zona a prevalente vocazione agricola (soprattutto uliveti ed agrumeti); mentre residuali risultano tutte le altre attività che pure sono presenti, quali l'artigianato, il terziario di tipo tradizionale (amministrazione pubblica), il commercio (presente soprattutto nella Piana di Gioia Tauro), l'edilizia. Praticamente nulle, se si fa eccezione per la MedCenter, le imprese di dimensioni maggiori.

L'agricoltura della Piana, un tempo piuttosto florida, oggi però è in crisi; e non soltanto perché i giovani si rifiutano di fare il lavoro modesto e faticoso cui si dedicavano i loro padri, e neppure unicamente per la riduzione degli aiuti comunitari e l'abbattimento dei prezzi di vendita a causa della concorrenza delle olive importate dalla Spagna e dal Nord Africa: motivi indubbiamente gravi e che concorrono a creare lo stato di crisi.

Così come è senz'altro determinante il ruolo che svolge la 'ndrangheta che, nel migliore dei casi è di "intermediazione coatta" per la vendita a terzi e, nel peggiore è quello di vera e propria antagonista del piccolo coltivatore. Infatti, una pratica assai diffusa nell'area è quella delle truffe ai danni della Comunità Europea, che diventano vere e proprie frodi degli onesti agricoltori. Il meccanismo dell'operazione è banale, ma necessita di connivenze all'interno dei Consorzi dove sono situati i Centri di raccolta: la mafia fa pesare più volte i propri carichi per ottenere maggiori contributi. In questo modo, secondo gli intervistati, risulterebbe che nella Piana siano prodotti 16 milioni di piante di agrumi anziché i 4 milioni effettivi. Tale operazione illecita non è dannosa solo per la Comunità, ma provoca danni ingenti anche al coltivatore, che, poiché l'ammontare complessivo dei contributi è stabilito a monte, si trova a poter fruire di quote minori. A questo proposito sono in atto delle indagini e ci sono delle proposte di legge in Parlamento per modificare l'iter di accesso ai finanziamenti.

Ma forse la più importante ragione dell'arretramento dell'economia agricola non è da ricercarsi in fattori esterni ma nel modo stesso in cui da sempre si è fatta coltura nella Piana, attraverso un sistema frammentato in mille piccole proprietà terriere, "suddito" delle grandi imprese del Nord, incapace di promuovere a livello nazionale il proprio marchio.

Su questo sistema gravano da un lato le incapacità dei governi locali (soprattutto di quello regionale) di superare i limiti di una gestione clientelare ragionando in una prospettiva di sviluppo reale e dall'altro le caratteristiche di una società locale che non riesce a superare i vincoli di una organizzazione del lavoro di tipo familistico.

Per avere un'idea del tipo di politica praticata dalla Regione, fondata sugli interessi clientelari ed elettorali più che su quelli economici, si pensi che l'Esac (l'Agenzia Agricola Regionale) qualche anno fa ha realizzato un centro di imbottigliamento a Cosenza, uno per l'ammasso a Catanzaro e frantoi a Gioia Tauro in modo da accontentare le tre province dell'epoca, senza però considerare che tre impianti così distanti non erano economicamente competitivi. Il risultato è che questi impianti non sono mai entrati in funzione.

Questo esempio consente di toccare con mano ciò che accade quando le logiche economiche vengono rimpiazzate dalla caccia al voto; quando le infrastrutture, da supporti all'attività produttiva vengono ridotte a pretesto per appalti; quando al decollo di un sistema economico indipendente si preferisce il protettorato del sistema politico.

Sul versante dei produttori, invece, si ha la frantumazione delle proprietà per linee familiari, che è il retaggio di una società arcaica fondata sulla solidità dei rapporti parentali e sulla diffidenza verso l'estraneo, e che ha difficoltà a fare associazione di impresa. Il risultato è che ben difficilmente i prodotti locali superano il confine del comune o dell'area di residenza dell'agricoltore.

Del resto, il mancato salto di qualità verso l'esterno è determinato anche dal fatto che in molte situazioni il reddito agricolo è stato percepito dal coltivatore come un'integrazione di altre entrate, spesso provenienti da impieghi nell'amministrazione pubblica o da rimesse degli emigrati, piuttosto che come fonte di reddito unica, su cui investire tutto il proprio tempo lavorativo e le proprie capacità produttive.

Il caso dell'olio, che è senz'altro il prodotto più importante e pregiato della Piana, è esemplare: quello spremuto nella zona è un manufatto di alta qualità che però non viene immesso sul mercato allo stato "puro", ma invece è rivenduto a grandi aziende nazionali del Centro-Nord che lo mescolano con prodotto di qualità più scadente e poi lo commercializzano. Poiché nella Piana non viene fatto l'imbottigliamento, la purezza (e quindi la qualità) del prodotto non viene tutelata, non esiste alcun marchio e neppure alcuna promozione del prodotto.

Per gli agrumi il ragionamento è solo parzialmente diverso, in quanto si tratta di prodotti meno pregiati (San Ferdinando e Marina di Nicotera sono i comuni che hanno gli agrumi migliori), sicuramente di qualità assai inferiore rispetto a quelli provenienti dalla Sicilia ma che, per gli stessi problemi dell'olio, non riescono neppure a vincere la sfida della competitività con i prodotti africani e spagnoli.

Lo stesso problema dell'incapacità di fare impresa consociandosi e presentandosi uniti in un cartello unico sul mercato si ha per alcuni prodotti artigianali della zona, che stentano a fuoriuscire dalla dimensione del consumo personale e locale, perché manca, da parte dei piccoli imprenditori, la volontà di fare il salto di qualità: è il caso, ad esempio, del torrone di Taurianova, della ceramica di Seminara o dei funghi di S. Giorgio Morgeto; attività che oggi danno lavoro a numerose famiglie ma che, in assenza di una politica di marketing comune, rischiano di morire così come sono nate.

Un caso emblematico, a questo proposito è rappresentato dalla concia delle pelli di Cinquefrondi: quest'attività, che cinquant'anni fa aveva creato un indotto di circa 100 botteghe di calzolaio, oggi è praticamente defunta senza che ci sia stato neppure un tentativo di creare un distretto calzaturiero sul tipo di S. Elpidio nelle Marche.

Un altro settore che potrebbe avere uno sviluppo nel futuro è quello turistico, che, per il momento, fa registrare un flusso limitato al ritorno degli emigranti nei mesi estivi: infatti, non bisogna dimenticare che, oltre al mare, nell'area c'è il Parco d'Aspromonte, e vi sono alcune zone di valore artistico e culturale che, se ben organizzate con itinerari integrati e dotate di strutture ricettive di tipo agrituristico, potrebbero costituire un'attrattiva di sicuro richiamo.

Indubbiamente su questa incapacità di crescere ha pesato in maniera determinante l'emigrazione, che ha determinato la dipartita di figure fondamentali per la prosecuzione e il rilancio su larga scala delle attività economiche. In una società agricola ed artigiana, polarizzata attorno ai padri e ai capomastri, la partenza dei primi e dei secondi per l'emigrazione ha causato un disorientamento sociale considerevole: sono venute a mancare queste fondamentali figure-guida e sono arrivati soldi facili (le rimesse degli emigranti), creando situazioni di "consumo senza lavoro", altamente diseducative per i pochi giovani rimasti.

Ma sul mancato decollo delle attività economiche autoctone ha un'influenza determinante anche la cultura del lavoro che prevale nella zona. I giovani di oggi, più scolarizzati rispetto a quelli di un tempo, sono cresciuti senza grosse aspirazioni se non quella per il "posto fisso" e fanno resistenza ad accettare di assumere la cultura del rischio e della libera impresa.

In Calabria gioca poi un ruolo fondamentale la famiglia, sempre pronta a "fare da paracadute" rispetto alle carenze della collettività. Ma l'impresa non si può fare con le forze di una sola persona o di una sola famiglia; è necessario unirsi e vincere la sfiducia reciproca che è ancora molto alta. Su questa strada si sono fatti dei piccoli passi avanti; ed è questa la strada che, seppure tra mille resistenze, stanno tentando i Comuni della zona con alcune iniziative imprenditoriali quali il Contratto d'area per la zona del porto e il Patto territoriale per i comuni dell'entroterra.

Perché la sfida per la legalità e per lo sviluppo richiede a questo punto che si impari almeno una cosa dalla 'ndrangheta, e cioè che il coordinamento e la cooperazione sono scelte vincenti. A patto di pianificare lo sviluppo tenendo conto delle regole di mercato e non di preoccupazioni elettoralistiche, rivelatesi nel tempo miopi e notevolmente dannose proprio per quella società locale che si intendeva favorire.

5. I nuovi sindaci: il pericolo del campanilismo, i vantaggi della cooperazione

Indubbiamente il panorama politico della Piana induce ad un certo ottimismo. Se si confronta la situazione attuale con quella del decennio scorso, si può ben dire di trovarsi dall'altro lato di uno spartiacque storico. I comuni dei principali centri della Piana sono infatti governati da giunte non compromesse con i gruppi 'ndranghetisti, e guidati da sindaci che, salvo poche eccezioni, sono giovani sia da un punto di vista anagrafico che politico. Si può ben dire che, a partire dal 1993, il Nuovo abbia fatto considerevoli passi avanti sulla scena dei governi locali, e questa è una valutazione espressa in modo pressoché unanime da tutti gli intervistati.

I nuovi sindaci fanno ben sperare per due motivi: perché sono la prova vivente dell'esistenza di un capitale di risorse umane nell'area, quindi della possibilità che si costruisca col tempo una classe dirigente all'altezza dei problemi della Piana; e che, alle spalle di questi rappresentanti politici, esiste una società forse ammutolita, ma che comunque vuole riconoscersi in governanti locali che siano altro dalla 'ndrangheta e dagli ambienti con essa collusi.

Riconosciuta la positività del rinnovamento politico che si è avuto nella Piana a livello comunale, va però detto che il compito che aspetta questa nuova classe politica locale è alquanto arduo. Sulla via dello sviluppo socioeconomico dei centri che li hanno espressi stanno infatti alcuni ostacoli di non trascurabile entità:
• i nuovi sindaci ricevono dalle precedenti amministrazioni una pesante eredità di malgoverno, inadempienze di ogni genere, abbandono, incapacità amministrativa; devono gestire città che spesso mancano di alcuni servizi essenziali, ed interloquire con una cittadinanza disabituata alla presenza dello Stato, coi limiti e i doveri che essa comporta (per cui la richiesta di pagare le tasse comunali è stata accolta in alcuni centri con sorpresa);
• le nuove amministrazioni si muovono in un contesto socioeconomico difficile, data la forte incidenza della disoccupazione giovanile, per cui le richieste della popolazione assumono spesso il carattere dell'urgenza, se non dell'emergenza: e rispondere alle emergenze con la lenta macchina della Pubblica Amministrazione può essere oltremodo difficile, se non frustrante;
• la popolazione dell'area ha vissuto a lungo in una cultura della dipendenza in base alla quale lo sviluppo era visto come assistenziale elargizione da parte dei governi locali, visti non come promotori/garanti di sviluppo, ma erogatori di redditi parassitari (posti pubblici fissi/precari, pensioni d'invalidità, rendite di vario genere, ecc.): lo sforzo da parte dei Comuni di entrare nella logica di un'amministrazione corretta ed efficiente può essere visto da molti come un tradimento di aspettative illegittime ma ormai radicate;
• mentre il ricambio a livello di sindaci ed assessori c'è stato, ed è stato generalmente radicale, restano nei comuni funzionari pressoché inamovibili, anche di alto livello, entrati con le vecchie amministrazioni sulla base di criteri clientelari di reclutamento, che in alcuni casi possono essere portatori di una vecchia mentalità formalistico-burocratica, indifferente ai risultati, se non essere collusi con gruppi affaristico-mafiosi;
• il rinnovo della classe politica a livello comunale non ha coinciso, per lungo tempo, con un rinnovo delle compagini provinciale e regionale; il dialogo con queste due importanti istituzioni locali non è stato dunque sempre facile per i nuovi sindaci;
• l'area della Piana sconta un perdurante deficit infrastrutturale (in termini di viabilità locale, reti di trasporto a lungo raggio ed elettriche, dotazione di servizi alle imprese, ecc.) sul quale non è possibile intervenire unicamente a livello comunale (p. es. i comuni possono migliorare il reticolo di arterie che li uniscono, ma non possono ristrutturare l'autostrada Salerno-Reggio Calabria e la parallela linea ferroviaria);
• le nuove amministrazioni comunali entrano in scena in un momento in cui le risorse finanziarie dello Stato non sono disponibili nella misura in cui lo erano in passato, sia per la politica di contenimento della spesa pubblica, sia per i passaggi di competenze dallo Stato alle Regioni nel quadro della "delega Bassanini", sia per le numerose riforme a diversi livelli di attuazione, che comportano cambiamenti dei soggetti gestori;
• la 'ndrangheta non si è affatto rassegnata alla perdita dei consigli comunali; la sua riposta può essere l'intimidazione, come dimostrano gli attentati verificatisi a Seminara, ma anche strategie meno visibili di controllo degli appalti pubblici (uso di prestanome, dissuasione preventiva delle imprese pulite dal partecipare alle gare, collusione con dirigenti piuttosto che con i politici, ecc.);
• essendo i rappresentanti dello Stato più prossimi alla cittadinanza (sia perché il comune è l'ultimo anello della catena dei governi locali, sia perché il Municipio è radicato in modo assai profondo nella cultura italiana), ma essendo circondati da un apparato amministrativo che non ha imboccato la via della razionalizzazione e dell'efficientizzazione (Province e Regioni, ma anche Sovrintendenze alle Belle Arti, Uffici delle Imposte Dirette, Ispettorati del Lavoro, ecc.), i Sindaci corrono il rischio di fare da parafulmine, nei confronti della cittadinanza, per responsabilità, inadempienze, scelte errate che non sono proprie.

Come si può ben vedere, le difficoltà per i Sindaci della Piana non sono affatto poche, né di piccola entità.

Appare allora irrinunciabile il perseguimento di una logica di sinergia da parte delle istituzioni comunali. Essa può e deve esplicarsi secondo due direttrici:
• orizzontale, di dialogo e cooperazione tra comuni ed i soggetti presenti sul territorio;
• verticale, di interfaccia con Provincia, Regione, Governo nazionale, ecc.

Qualunque sia la dimensione sulla quale si ritiene di intervenire prioritariamente per la soluzione dei problemi della Piana, è necessario salvaguardare il principio della sinergia tra i Comuni. Ciò per una somma di ragioni:
• ci sono problemi che possono essere affrontati solo a livello di consorzio intercomunale (come lo smaltimento dei rifiuti, le opere di viabilità nell'area della Piana, l'ottenimento di fondi dell'Unione Europea, ecc.)
• l'assenza nell'area di un vero e proprio capoluogo sub-provinciale, che si faccia carico di tutta una serie di funzioni indispensabili (polo ospedaliero, giudiziario, scolastico, ecc.), richiede una specializzazione dei centri, che può essere organizzata solo sulla base di un accordo tra i Comuni;
• la progettazione dello sviluppo socioeconomico offre poche possibilità ai singoli comuni della Piana, ma diventa molto più praticabile a livello di comprensorio, grazie a sinergie (si pensi solo alle prospettive turistiche offerte dalla morfologia della zona), specializzazioni produttive (vocazione agricola, artigianale, industriale, ecc. dei vari Comuni), individuazione di complementarità (p. es. i comuni con più forte vocazione agricola possono produrre alimenti tipici che verrebbero valorizzati attraverso il turismo che interesserebbe i Comuni montani e/o litorali, come avviene in altre parti del paese);
• l'interazione con Provincia, Regione e Governo centrale finalizzata allo sviluppo socioeconomico dell'area è un impegno troppo gravoso per qualsiasi comune della Piana preso di per sé; ma un ipotetico "Soggetto Piana" (il totale della popolazione residente è di oltre 170.000 abitanti, quasi pari a quella del capoluogo di Provincia) avrebbe un ben maggior peso contrattuale.

La cooperazione dei Comuni è però resa difficile da un esagerato spirito di campanile. Certo la tradizione municipalista è radicata in tutto il nostro paese, ma nella realtà della Piana essa è inasprita a tal punto da aver messo in crisi una delle esperienze più interessanti di cooperazione a livello sub-provinciale, quella dell'associazione Città della Piana.

Ci sono motivi profondi per cui è difficile far lavorare insieme le città Calabresi. Senz'altro il più antico è costituito dalle caratteristiche orografiche dell'intera regione, che rendevano le comunicazioni difficili e spingevano quindi ogni centro a vivere chiuso su se stesso, in un microcosmo locale piuttosto angusto.

Ma certo un peso nell'inasprimento del municipalismo lo ha avuto anche quella che abbiamo già definito cultura della dipendenza, ovvero l'attendismo nei confronti di interventi risolutivi provenienti dall'esterno. Se a livello individuale esso si traduceva nella ricerca di un reddito garantito dallo Stato, a livello collettivo esso si è materializzato nella tendenza a cercare la comunicazione lungo l'asse verticale, verso i palazzi romani della politica nazionale, nella speranza che si realizzasse qualche insediamento produttivo pubblico, più che sull'asse orizzontale della cooperazione tra soggetti posti sullo stesso territorio.

Non solo: la cultura della dipendenza ha fatto sì che i Comuni e le Province contigui diventassero concorrenti, in lotta per accaparrarsi investimenti a fondo perduto, opere pubbliche più o meno utili, funzioni amministrative più o meno prestigiose, uffici pubblici, ecc. E questo non è un "male" della sola Piana, ma in generale un "male" calabrese, come è dimostrato dai fatti della sommossa di Reggio Calabria del 1970 e dalle conseguenze da essi scaturiti.

Le difficoltà nella cooperazione tra i comuni della Piana sono da attribuire essenzialmente a questo spirito esasperatamente municipalistico, che andrebbe messo da parte se si vuole tener testa alle difficoltà sopra elencate. In questo momento i sindaci sono l'avanguardia del nuovo, del mutamento culturale che potrebbe portare nel tempo al riscatto della Piana; ma essere all'avanguardia porta rischi non indifferenti. Quella del sindaco è, al momento attuale, una figura estremamente esposta, nel bene e nel male: e il capitale di credibilità che i nuovi amministratori locali hanno riscosso all'atto della loro elezione potrebbe essere facilmente dissipato, in un ambiente socioeconomico così difficile.

E' per questo importante che si proseguano le esperienze di collaborazione tra comuni in atto, primo tra tutti il Patto Territoriale, senza trascurare quelle di dimensioni più ridotte (esempio degno di particolare interesse è lo sforzo da parte di otto comuni di dotarsi di consulenti per l'ottenimento dei fondi comunitari); ma soprattutto che si ricostituisca il "Soggetto Piana". Non è improbabile che il tentativo di costituire una virtuale città della Piana fosse prematuro, o sia stato intrapreso con comprensibili ingenuità ed eccesso di ottimismo, caricandolo di aspettative eccessive; ma va assolutamente salvata l'idea di base, cioè la creazione di un soggetto a livello sub-provinciale che crei sinergie e complementarità sul territorio, facendo della Piana nella sua interezza una conurbazione funzionale e vivibile.

 

6. Una società ammutolita
Qual è il rapporto tra presenza della 'ndrangheta e società locale? Rispondere a questa domanda richiede che vengano prima fatte alcune considerazioni generali sul rapporto tra la criminalità di stampo mafioso e la società nella quale essa si muove.

La mafia è molte cose: ma per il nostro discorso va tenuta presente la definizione in termini di "ordinamento giuridico illegale", proposta dal giurista Santi Romano. Un ordinamento giuridico illegale rispettato da una comunità speciale, un "popolo di mafia" che fa parte di una comunità più ampia, ma se ne deve necessariamente distinguere. Il problema dell'appartenenza non è solo estrinseco, cioè non interessa solo chi deve investigare sulle attività mafiose per definire responsabilità e individuare i colpevoli: è in realtà una questione che le stesse organizzazioni criminali devono affrontare.

La domanda sul rapporto tra 'ndrangheta e società locale diviene quindi automaticamente una domanda su chi è dentro e chi è fuori, su chi fa parte e chi no, e sull'estensione di una zona grigia che farebbe da connettivo tra il "popolo di mafia" e il resto della collettività. A questa domanda, per lo meno in Calabria, la 'ndrangheta ha risposto mediante un criterio ereditario (il parente dello 'ndranghetista è 'ndranghetista dalla nascita, almeno in potenza) e rituali di affiliazione che servono a far entrare nel "popolo di mafia" nuovi elementi. La lunga vita di queste due soluzioni ha fatto sì che, rispetto ad altre realtà del Mezzogiorno, i confini tra chi è dentro e chi è fuori siano più netti.

Confrontando la situazione della Piana con quella p. es. del napoletano, dove i rituali hanno avuto vita breve all'epoca della nuova camorra organizzata di Cutolo, i gruppi si fanno e si disfano continuamente, il clan camorrista spesso null'altro è che un'aggregazione effimera di soggetti accomunati solo da interessi economico-criminali, e la popolazione spesso partecipa part-time all'attività criminosa (simpatizzando con il boss locale al punto che non sono rare clamorose manifestazioni di sostegno), non si può non notare che in Calabria la stabilità dei gruppi, l'importanza del vincolo familiare, le ridotte dimensioni dei centri interessati fanno sì che la presenza 'ndranghetista sia molto meglio circoscrivibile.

Ma ciò non rende le "locali" calabresi più deboli dei clan camorristi, né indebolisce la presa che esse hanno sulla società locale. Quello che prevale nella società della Piana è un rapporto terroristico, più che di cointeressenza nell'illegalità (questo secondo rapporto è meglio esemplificato dal mercato delle sigarette di contrabbando a Napoli). La capillarità della presenza mafiosa (stimata nella misura di 1 affiliato per circa 300 abitanti) fa sì che la 'ndrangheta abbia nella Piana di Gioia Tauro una capacità di controllo del territorio e quindi di coercizione che non ha uguali in altre aree del paese.

Il fatto stesso che praticamente tutti i centri maggiori della Piana (Gioia Tauro, Rosarno, Palmi, Cittanova, Taurianova, Oppido Mamertina, Seminara, Polistena, Melicucco, Laureana di Borrello, Cinquefrondi, Rizziconi) siano stati o siano sede di "locali" (in alcuni casi più di una) la cui attività è documentata da tempo, dà l'idea della pervasività dell'occupazione 'ndranghetista dell'area. I centri che non siano sede di famiglie storiche sono comunque esposti all'azione dei gruppi residenti nei centri vicini; sono relativamente indenni solo alcuni paesi più marginali (tipicamente appartenenti alla fascia montana), presumibilmente perché non presentano una vitalità economica tale da renderli appetibili.

Va rimarcato inoltre il fatto che le città della piana sono tutte di piccole dimensioni (poco più di 18.000 abitanti per il centro di maggiori dimensioni). Si tratta di comunità compatte, con sistemi di relazioni familiari estesi (si riconosce come parente anche il cugino di III grado), e con la connettività stretta dei rapporti personali tipica dei centri minori italiani. Ciò rende facile agli 'ndranghetisti il compito di "sorvegliare e punire", come se i paesi della Piana fossero altrettanti foucaultiani panopticon.

Eppure, nonostante condizioni così sfavorevoli, la cittadinanza della Piana ha dato alcuni segnali positivi.

Prima di tutto abbiamo l'elezione dei nuovi sindaci, che attesta la correttezza della lettura del rapporto 'ndrangheta-società locale in termini terroristici più che di collusione. Nel chiuso dell'urna gli abitanti della maggior parte dei centri della Piana hanno espresso fiducia per una classe politica nuova e non compromessa. E gli attentati subiti da alcuni sindaci dimostrano che questo ricambio non è stato gradito dalle "locali".

Vi è poi l'esperienza dell'associazione anti-racket di Cittanova, che ha raccolto significativi successi su uno dei terreni che più premono alle cosche, quello del controllo delle attività economiche; e che comincia ad essere imitata in altre realtà delle Piana.

C'è il risveglio delle comunità locali nella riappropriazione delle piazze e dei territori di residenza per lo svolgimento di feste e di rassegne teatrali e musicali.

Infine c'è una partecipazione, anche se silenziosa, al dolore dei familiari delle vittime di mafia: si pensi che al funerale del medico Iocolano ha partecipato pressoché tutta la popolazione di Gioia Tauro.

Segnali del genere fanno propendere per una lettura della società civile della Piana che distingua tra sottoinsiemi ben definiti, e sostanzialmente:
• il popolo di mafia, cioè gli affiliati alla 'ndrangheta veri e propri;
• il gruppo dei collusi, che cooperano attivamente con le varie attività economico-criminali delle "locali" (gruppo alquanto eterogeneo);
• il resto della società, che in misura maggiore o minore subisce silenziosamente la presenza mafiosa, che rifiuta di entrare in un rapporto di collusione, ma non resiste all'imposizione per paura;
• alcune punte di eccellenza, per lo più singoli o gruppi ristretti (sindaci, giunte comunali, associazioni), che operano attivamente contro l'occupazione 'ndranghetista del territorio.

A differenza che nei grandi centri del Sud, è meno presente la fascia degli indifferenti, ovvero di quelli che ignorano la presenza mafiosa e la ritengono sostanzialmente qualcosa con cui si ha un rapporto solo tramite i mass-media e il "sentito dire". La 'ndrangheta è qui una presenza ineludibile, rispetto alla quale si deve prendere necessariamente posizione, anche se di dissenso "muto".

Infatti, nonostante una presenza così pervasiva, le iniziative di aperto contrasto alla criminalità organizzata sono ancora poche, le denunce per racket ed estorsione anche, ed è relativamente da poco che si comincia a pronunciare senza timore la parola 'ndrangheta nei dibattiti pubblici, nei consigli comunali, in chiesa, nelle scuole.

Ma, per quanto la presenza mafiosa sia forse il più grande problema dal punto di vista sociale nell'area, non si può dire che questo sia l'unico male che affligge la società civile della Piana.

Essa sconta infatti le conseguenze di una prolungata emorragia demografica, che ha portato alla partenza (dovuta anche alla soffocante presenza criminale, ma soprattutto all'atrofia economica dell'area) di quei soggetti dotati di maggiore spirito d'iniziativa e in molti casi di un prezioso know-how lavorativo (artigiani). Si è avuta così una prolungata selezione negativa: gli elementi orientati verso il mondo del lavoro partivano, restavano quelli che erano garantiti dall'appartenenza al reticolo affaristico-criminale, o che avevano posizioni di rendita, o che vivevano grazie alle rimesse degli emigranti, direttamente (perché parenti) oppure indirettamente (perché attivi in quel settore edilizio di "piccolo cabotaggio" che è stato il principale beneficiario delle rimesse).

Ciò ha portato ad un rafforzamento esasperato di quella cultura della dipendenza che certo è diffusa anche in altre aree del Mezzogiorno. L'iniziativa economica era sempre in mano ad altri: allo Stato che costruiva una cattedrale nel deserto dopo l'altra, alla Regione che investiva fondi sulla base di logiche meramente elettorali (si veda l'equa distribuzione per Province degli impianti regionali per l'industria olearia), delle grandi industrie olearie nazionali, degli emigranti che investivano immancabilmente nel "bene-rifugio" per eccellenza.

Personalismo esasperato e cultura della dipendenza sono ostacoli allo sviluppo non meno grandi della 'ndrangheta; e si può affermare senza tema di smentite che essi costituiscono condizioni favorevoli all'insediamento mafioso e alla sua preservazione.

C'è poi un altro problema che influenza profondamente il modo di essere della società calabrese, ed è quello, in assenza di un soggetto pubblico che funzioni, della ricerca di soluzioni personali e alternative.

"A uno Stato che non dà niente non si deve concedere niente": sembrerebbe essere questa la convinzione diffusa tra la gente della Piana, che fatica ad accettare che si debbano pagare le tasse, si debbano rispettare le regole della civile convivenza, si debba lavorare per le ore per cui si è pagati... Ed effettivamente bisogna riconoscere che, almeno fino ad un recente passato, nella Piana lo Stato, direttamente o per tramite dei governi locali, ha fatto poco: oggi le amministrazioni locali sono tutte impegnate a garantire almeno un minimo di normalità, cioè fare manutenzione degli edifici scolastici, costruire le strade, la rete idrica e fognaria, rendere agibili le piazze.

Sul versante sociale, si riscontra una parallela situazione di abbandono: bisogna ammettere che le opportunità di incontro e di ritrovo per i giovani sono, nella maggior parte dei comuni, ridotte ai bar dove bere e giocare a carte.

Se allora è necessario impegnarsi in una battaglia culturale per estirpare la 'ndrangheta dal suolo della Piana, è indispensabile includere nei piani strategici anche un'educazione alla legalità che vada contro il familismo e la dipendenza economica e che insegni anche quali sono i diritti ed i doveri dei cittadini nei confronti della pubbliche amministrazioni.

Inoltre, una volta risolti i problemi di "sopravvivenza" è necessario che gli amministratori della realtà locale si impegnino per offrire ai giovani opportunità di svago e passatempi alternativi ai bar o ad ancora più dannose attività di vandalismo o veri e propri illeciti.

Anche in questo caso è necessario però che i diversi soggetti attivi su scala locale per lo sviluppo nella legalità si raccordino per avviare un percorso di scambio delle esperienze migliori e di coordinamento delle stesse e per dare forza e visibilità alle iniziative che, seppur timidamente, si stanno avviando.

 

7. Prospettive
Un dato di estremo interesse che risulta da una lettura incrociata delle interviste svolte per la preparazione del presente documento è il ricorrere insistente di alcuni temi. Gli intervistati concordano sul fatto che le direzioni prioritarie di intervento siano:
• dotazione infrastrutturale dell'area (viabilità a lungo e breve raggio; rete ferroviaria locale e a lunga percorrenza; potenziamento del Porto di Gioia al di là del transhipment, con servizi di traghettamento per le Eolie e la Sicilia, porto industriale, cantieristica, ecc.);
• incentivi per l'insediamento industriale (mediante sovvenzioni, defiscalizzazione, zona franca, ecc.);
• sostegno all'agricoltura per superare la crisi attuale;
• repressione e prevenzione del fenomeno 'ndranghetista, con potenziamento delle strutture attuali (specialmente per quel che riguarda la magistratura) e adozione di soluzioni innovative (potenziamento dell'intelligence sul territorio, "blindatura" di aree selezionate, in particolare quelle industriali ed il Porto).

Ciò da un lato attesta l'effettiva importanza di questi aspetti della "questione sviluppo" nella Piana; dall'altro lato però, visto che si tratta di interventi che spettano al governo nazionale, sono al di là dell'effettiva capacità operativa dei soggetti locali, e fanno ritenere che permangano ancora tracce della non proprio veneranda tradizione della dipendenza da un "Centro" sempre lontano, distratto, ecc.

Con ciò non si vuol dire che lo Stato nazionale non abbia le sue responsabilità nella situazione della Piana, e che Roma non debba fare la sua parte (una parte piuttosto consistente) per agevolare lo sviluppo dell'area. Senz'altro la questione del collegamento autostradale e ferroviario della Piana col resto della penisola deve essere affrontata, anche per consentire un'ulteriore crescita del Porto di Gioia Tauro. E il Porto deve uscire dalla monocultura del transhipment se si vuole che finalmente interagisca con il retroterra.

Ma la chiave dello sviluppo è nella Piana. E questo sembrano averlo compreso alcuni degli intervistati che hanno fatto proposte più ancorate alla dimensione locale, centrate sulla valorizzazione delle risorse del territorio:
• elaborazione di un'offerta turistica che combini il patrimonio archeologico con quello naturalistico, sia montano che costiero;
• valorizzazione dei prodotti artigianali locali, dalle ceramiche agli alimenti;
• razionalizzazione dell'offerta di servizi al territorio (p. es. quella sanitaria), con creazione di poli funzionali che possano "vendere" servizi anche all'esterno dell'area (un esempio è il "mercato" dei by-pass coronarici, che al Sud vengono effettuati solo presso l'ospedale di Catania, e in misura tale da non soddisfare affatto la richiesta locale).

La chiave dello sviluppo resta nel territorio anche per tutti quegli interventi che non possono essere fatti dai soggetti locali. Interloquire con il livello nazionale della politica, ma anche dell'industria e della finanza sarà possibile solo alla Piana nel suo complesso, non ad uno solo dei suoi Comuni. Se la Città della Piana saprà presentarsi ai tavoli delle trattative come un soggetto sufficientemente compatto e mosso da una volontà unitaria, essa sarà in grado di giocare da protagonista la partita dello sviluppo. Altrimenti si torneranno a levare le storiche lamentazioni sulle miserie di un territorio perennemente seduto sulla propria ricchezza.

Per quanto riguarda gli interventi sulla legalità, mentre le forze dell'ordine e la magistratura debbono continuare a muoversi sulla strada della repressione, intrapresa con successo negli ultimi anni; alle altre forze presenti sul territorio spetta il compito di intraprendere con maggiore decisione la via della prevenzione.

Anche in questo caso non ci si muove nel vuoto assoluto: esistono nella Piana alcune scuole e associazioni che hanno intrapreso progetti di promozione della cultura civica e della cultura della legalità; e, soprattutto, esistono in altre aree del nostro Paese numerose esperienze che andrebbero conosciute e riproposte. Anche in questo caso la collaborazione e la costituzione di una rete tra i diversi soggetti che già operano sul territorio rappresenta il primo passo per condividere i piccoli percorsi che ognuno, autonomamente, sta conducendo.

Alcune idee, per iniziare, sono facilmente realizzabili senza un gravoso dispendio di risorse economiche:
• la costituzione di un tavolo di concertazione (la Consulta della legalità) finalizzato ad uno scambio periodico di informazioni sulle attività svolte o in programma;
• la realizzazione di uno Sportello di documentazione sulle iniziative e sui materiali prodotti, anche altrove, per le scuole e per i giovani;
• l'organizzazione di alcuni incontri con le realtà che, altrove, già si muovono con successo su queste tematiche (il Centro di documentazione della legalità di Firenze, l'Associazione Libera, lo Sportello per le scuole della Commissione Antimafia...);
• la realizzazione di un primo Censimento delle iniziative che si svolgono nelle scuole della Piana con una presentazione delle stesse.

Sono solo alcune proposte, che però danno il senso dell'importanza di cominciare, anche a partire da pochi, ma ben precisi, obiettivi.