Corriere della Sera del 24/10/2005
Caso Fortugno, silenzi e verità
Le indagini scomode
Sergio Romano

Francesco Fortugno è una vittima della mafia calabrese, e sarebbe assurdo farne improvvisamente un complice o un sodale. Ma i risentimenti suscitati dallo sviluppo delle indagini dopo la scoperta dei suoi contatti telefonici con un esponente della 'ndrangheta, è il risultato di un teorema che ha ispirato in questi anni il lavoro di molti magistrati e il giudizio di alcuni uomini politici. Secondo questo teorema la società di alcune regioni meridionali sarebbe spaccata tra le organizzazioni mafiose, spesso in combutta con una parte dei ceti dirigenti, e il popolo buono, succube delle vessazioni di una clique politico-criminale. Per risanare una società malata basta quindi colpire il drago e liberare il popolo prigioniero. E' una tesi che tutti, involontariamente, abbiamo contribuito a diffondere registrando con gioia, come eventi decisivi, le manifestazioni popolari dopo gli assassinii degli scorsi anni, i lenzuoli bianchi alle finestre delle case di Palermo, i dibattiti sulla mafia nelle scuole siciliane. Molti pensarono che il popolo buono si era ribellato alla tirannia dei clan e che il potere delle organizzazioni criminali aveva i giorni contati. Il principale tentativo di provare l'esattezza di quel teorema fu naturalmente il processo di Palermo contro Giulio Andreotti.
Temo che questa spiegazione ideologica, cresciuta su un terreno coltivato da una certa cultura marxista e cristiana, abbia offuscato la natura del problema. Non esistono sfortunatamente in Calabria e in Sicilia due entità distinte, composte rispettivamente da buoni e cattivi. Esiste una larga area della società in cui si è formata col passare del tempo una rete di complicità, collusioni, silenzi interessati, relazioni familiari, favori fatti e ricevuti. Questo non significa che i siciliani e i calabresi siano mafiosi. Significa tuttavia che ciascuno di essi può essere esposto, più dei loro connazionali in altre regioni italiane, al rischio di una pressione, di un ricatto o di una scelta moralmente sgradevole. Ed è evidente che il rischio è particolarmente forte nel mondo della politica, inevitabile crocevia di scelte da cui può dipendere una carriera professionale, la fortuna di un'azienda, la ricchezza di un imprenditore. La tesi secondo cui la destra sarebbe vulnerabile e la sinistra virtuosa, è semplicistica e può oscurare la natura del problema. In Sicilia e in Calabria, destra e sinistra sono spesso distinzioni di comodo, e il voto degli elettori sembra rispondere a motivazioni locali piuttosto che a scelte ideali. Non si spiegherebbe altrimenti l'altissimo numero di preferenze conquistate alla elezioni europee da Salvo Lima, sospettato di amicizie mafiose e assassinato nel marzo del 1992. Non si spiegherebbe l'improvviso successo di Leoluca Orlando negli anni successivi e la vittoria del centrodestra in tutta l'isola nelle politiche del 2001.
Sono sicuro che la Calabria, come già in parte la Sicilia, riuscirà a uscire un giorno dal suo timoroso silenzio e da questa zona grigia in cui molte persone possono essere sinceramente contrarie alla mafia, e tuttavia al tempo stesso inserite, magari involontariamente, nelle sue trame. Ma l'unica via da percorrere, nel frattempo, è quella delle indagini freddamente distaccate che non trascurano nulla, non hanno pregiudizi ideologici, non danno nulla per scontato e si propongono un solo obiettivo: la verità.